C’è una guerra scoppiata da poco più di un mese di cui si parla poco, che non fa "boom" e, almeno per ora, nemmeno vittime: non si combatte con il fucile ma con il mouse e qualcuno l’ha già ribattezzata "la prima grande guerra digitale". Ad innescarla lo scorso 28 novembre sono state le rivelazioni di Wikileaks (per sapere tutto su Wikileaks clicca qui) sui segreti della diplomazia internazionale. Poche ore dopo, i server che ospitavano il sito dell’organizzazione di Julian Assange sono caduti sotto un attacco DDoS (Distributed Denial of Service): al sito di Wikileaks è stato cioè inviato un numero elevatissimo di false richieste da più computer e contemporaneamente. Il server non è stato in grado di soddisfarle e il sito è diventato irraggiungibile.
Chi è stato? Non lo sapremo mai con certezza. Anche se un non meglio identificato "Jester" ha rivendicato su Internet la paternità dell’attentato, sono in molti a pensare che sia opera di organizzazioni governative e servizi segreti che hanno voluto ridurre al silenzio, anche se solo per qualche giorno, una voce considerata scomoda.
Quel che è certo è che la raffica di contrattacchi e rappresaglie che hanno attraversato Internet nei giorni successivi ha dato al mondo un’idea molto precisa di come si combatteranno le guerre elettroniche del futuro e di come chiunque possa trasformarsi in un micidiale cecchino digitale. A costo zero e senza essere un esperto di informatica. Ecco com'è andata.
Il 29 novembre, il giorno dopo l’attacco, Wikileaks decide di spostare il suo sito sui server di Amazon, la stessa azienda che gestisce una delle più grandi librerie online, ma dopo sole 48 ore viene spento. Secondo Amazon i contenuti di Wikileaks violano i termini del contratto di servizio. "Se Amazon ha problemi con il Primo Emendamento (il primo articolo della Costituzione USA che garantisce varie libertà, tra cui quella di stampa, NdA), sarà meglio che lasci il business dei libri" risponde Wikileaks il 1 dicembre da Twitter.
Nei giorni successivi Assange viene arrestato a Londra e tutto il Web ufficiale mette al bando Wikileaks: PayPal e Visa sospendono gli account tramite i quali l’organizzazione raccoglie le donazioni dei propri sostenitori mentre EveryDNS, il provider presso il quale è registrato il dominio wikileaks.org, spegne il sito. La motivazione ufficiale è sempre la stessa: violazione dei termini del contratto.
Wikileaks però non si ferma e il 3 dicembre ricompare sul sito wikileaks.ch, registrato a nome del PiratenPartei, il Partito Pirata svizzero.
Il sito è ospitato da un provider Svedese ed è disponibile in mirror, cioè in copia, su alcune migliaia di altre pagine web messe a disposizione da diversi sostenitori di Assange e della sua organizzazione.
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Guerriglieri elettronici
Per evitare che situazioni di questo tipo si possano ripetere con conseguenze più gravi, il Dipartimento Americano della Difesa ha recentemente varato il primo gruppo di Cyber Commandos, un corpo speciale il cui compito è quello di difendere gli interessi online degli Stati Uniti e condurre attacchi informatici come quelli che nelle scorse settimane sembra abbiano fermato Anonymous .
Cosa succederà in futuro? Difficile dirlo: gruppi come Anonymous probabilmente non riusciranno mai a fare grossi danni, ma se dovessero nascere strutture meglio organizzare e coordinate? Dove potrbbero arrivare? E a chi spetterebbe il compito di fermarli in un terra di nessuno come Internet?
La questione non è da poco, perché se il mondo può sopravvivere qualche ora senza comprare libri online, cosa succederebbe quando se ad essere attaccate fossero le strutture vitali di un paese? Per esempio le reti di telecomunicazioni o le infrastrutture energetiche?
Attacchi virtuali e rischi reali
Non è fantascienza, è già successo all’inizio del 2010 quando un virus chiamato Stuxnet (vedi Focus ° ...) ha colpito numerosi computer in Iran, tra cui quelli che controllano l’impianto industriale di Natanz dove viene effettuato l’arricchimento dell’uranio. Secondo gli esperti di VirusBlokAda, l’azienda di sicurezza informatica che per prima l’ha isolato, il tipo di codice e la sua elevata sofisticazione fanno pensare che sia stato sviluppato con la complicità di un governo, per esempio quello israeliano.
E nei cablogrammi recentemente pubblicati da Wikileaks si legge che dietro a Blaster, il virus che nel 2003 infettò milioni di PC ordinando loro di attaccare il sito di Microsoft, potrebbe esserci il governo cinese, così come per Byzantine Candor e Aurora che tra il 2009 e il 2010 hanno colpito siti di attivisti per i diritti umani dei cinesi e reti informatiche militari americane.
L’ultimo click
Ma in caso di guerra informatica globale quale sarebbe l’arma definitiva? Lo spiega in un’intervista al quotidiano Il Tempo Fabio Ghioni, uno dei più famosi hacker italiani: "Un altro timore è che gli Usa possano usare come arma di ricatto l’ipotesi di spegnere Internet, ovvero far saltare la Rete. Obama l’ha già chiesto al Congresso che finora non ha rilasciato autorizzazione. Rimarrebbe quel circuito su cui viaggiano gli hacker che non si appoggia a Internet come base. Il problema è che se si preme l’interruttore, salta anche il 70% del business mondiale".