La forza che permette a un aereo di staccarsi da terra si chiama portanza: è la spinta, perpendicolare alla direzione del moto, che si produce per effetto del flusso dell’aria intorno all’ala.
Questa infatti è "costretta" a scorrere parte sopra e parte sotto l’ala: data la forma (il profilo) di quest'ultima, le due "porzioni" di aria si muovono a velocità differenti (più velocemente sopra, meno sotto).
Condizione che, per un principio della fisica, fa sì che sulla "faccia" superiore (dorso) la pressione dell'aria sia minore che in quella inferiore (ventre): la forza risultante crea pertanto un "effetto risucchio", verso l'alto, che – superata l'intensità della forza di gravità – permette all'aereo di sostenersi in volo.


Questione di velocità. La portanza, che entra in gioco ogni momento del volo, dipende dalla velocità rispetto all'aria e dalla configurazione dell'ala: in particolare dalla superficie e dall'inclinazione, che vengono modificate attraverso il movimento degli elementi mobili (flap e slat, o ipersostentatori) che si trovano nelle estremità anteriori (bordo d'attacco) e posteriori (bordo di uscita o di fuga).
Mantenendo la velocità costante, se si incrementa la curvatura dell’ala, aumenta la portanza. Ma c’è un altro fattore importante: è la densità dell’aria, che diminuisce con l’aumentare della quota di volo (all'incirca si dimezza ogni 5 km).
Alle quote di crociera degli aerei di linea, intorno ai 10 mila metri, l’aria più rarefatta offre meno resistenza: da una parte questo aumenta – a parità di spinta dei motori – la velocità dei velivoli, dall’altra li “costringe” a mantenere un’andatura superiore per conservare la portanza. Infatti, se la velocità si riduce eccessivamente, la spinta dal basso diventa insufficiente e l’aereo finisce per perdere quota.
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