Il tester (o beta-tester che sia) è una professione relativamente giovane nello sviluppo videoludico moderno e per molti è considerata tuttora in forte espansione. Molti giovani che desiderano lavorare in questo ambito credono si tratti “soltanto” giocare a qualcosa per ore ed ore, ma in realtà non è tutto oro ciò che luccica.
Da addetto ai lavori mi è capitato, in particolar modo di recente, di osservare situazioni che potrebbero avanzare ben più di una perplessità circa l’effettivo futuro di tale ruolo, in particolar modo se considerato sulla base di alcuni aspetti strettamente legati alla pubblicazione di certe tipologie di giochi. E’ infatti diventata una consuetudine di molte software house quella di rilasciare versioni complete dei propri prodotti, ma non per questo esenti da difetti o suscettibili comunque a dei miglioramenti sotto alcuni punti di vista. Mi riferisco, come forse qualcuno avrà già intuito, alle cosiddette patch. Senza entrare nello specifico, è bene chiarire che lo sviluppo di un qualsiasi software, sia esso un programma o un videogioco, è soggetto ad errori (bug) di diversa natura e solo in seguito al rilascio dello stesso è possibile porre rimedio (patch infatti vuol dire pezza) per risolvere qualcosa che in programmazione non fosse andato per il verso giusto.
Tornando però al settore videoludico, è interessante (o forse dovrei dire preoccupante?) constatare come sempre più spesso i produttori facciano ricorso ad una patch per aggiungere funzionalità o contenuti altrimenti non disponibili. Un esempio di ciò è riscontrabile nel gioco Dragon Age II, pubblicato lo scorso 11 marzo per PlayStation 3 e Xbox 360, ma sprovvisto di texture in HD, rese disponibili invece dallo sviluppatore BioWare solo per la versione PC. Sempre più case scelgono questa strada ed il ruolo dei tester risiede ormai idealmente sempre più nell’utente finale, in grado di “sviscerare” un prodotto come e meglio di un esperto programmatore.
Roberto Ritondo