Innovazione

I robot ci ruberanno davvero il lavoro?

Il progresso tecnologico ha sempre creato ricchezza e nuova occupazione. L’avvento dei robot nella catena economica deve però avvenire in maniera controllata e servono misure che, soprattutto nel breve periodo, tutelino le categorie più deboli.

Avere colleghi robot in molte aziende è ormai una realtà: dai carrelli automatici che prelevano i prodotti all’interno dei magazzini Amazon alle SpeedFactory di Adidas dove le scarpe vengono costruite quasi senza intervento umano, l’avanzata delle macchine sui luoghi di lavoro sembra ormai inarrestabile.


La tecnologia sta contribuendo a ridisegnare le attività produttive in ogni ambito e a tutti i livelli: i nuovi lavoratori elettronici infatti non si occupano solo dei lavori più ripetitivi e di basso profilo, ma sono sempre più spesso impiegati anche in quelle che vengono definite professioni della conoscenza.

Quante teste vale un cervellone? La Fukoku Mutual Life Insurance per esempio, una compagnia assicurativa giapponese, ha sostituito con un sistema di intelligenza artificiale 34 impiegati che si occupavano della liquidazione dei sinistri.

Il cervellone, in completa autonomia, analizza le richieste di rimborso, controlla i referti medici e la documentazione fornita dai clienti, chiede eventuali integrazioni e, quando tutto è in regola, effettua il bonifico per la cifra prevista.

Sistemi ancora più sofisticati vengono impiegati nel mondo della finanza per la gestione dei portafogli di titoli e per la previsione dell’andamento dei mercati, ma anche negli studi legali per effettuare in pochi secondi ricerche che a un essere umano richiederebbero ore o giorni di lavoro.

Robot Krumiro. Ma quindi, nel prossimo futuro, il nostro posto di lavoro sarà minacciato non tanto dal collega arrivista quanto dall’ultimo modello di robot, pronto a obbedire senza lamentarsi nè chiedere ferie o aumenti di stipendio?

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La parola agli esperti. Secondo diversi autori, il problema è reale: nella prefazione all’ultima edizione del suo libro La fine del lavoro, l’economista Jeremy Rifkin ipotizza che entro il 2050 l’intero sistema economico mondiale potrà essere gestito dal 5% della popolazione adulta. E buona parte del restante 95% sarà impegnato a proteggersi dalla crescente criminalità alimentata dalla disoccupazione tecnologica e dalla progressiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.

Non molto più incoraggianti sono le stime del World Economic Forum di Davos che per le 15 economie più importanti del mondo, tra le quali l’Italia, prevede una perdita netta di 5 milioni di posti di lavoro nei prossimi 5 anni per colpa dei robot.

Ottimismo tecnologico. Ma andrà proprio così? Sarah Kessler, reporter di Quartz ed esperta di tecnologie, la pensa diversamente e, numeri alla mano, spiega in un suo recente articolo perchè l’evoluzione tecnologica non può e non deve essere considerata nemica del lavoro e dei lavoratori.



Tra l’altro, fa notare la Kessler, la storia ci insegna che l’avvento delle innovazioni tecnologiche ha sempre impattato positivamente sul mondo del lavoro: alla fine del diciannovesimo secolo, in Inghilterra, il numero delle imprese era 4 volte maggiore rispetto a quelle esistenti nel 1830 (fonte).

FANUC R-2000iB è un robot industriale che prepara pacchi per le spedizioni © Mixabest / Wikimedia Commons

Meno lavoro, più ricchezza? L’automazione dei processi produttivi porta prima di tutto un risparmio sui costi: questo permette alle aziende di abbassare i prezzi e quindi vendere di più. La maggiore domanda avrà come effetto positivo quello di generare nuovi posti di lavoro. Che in parte saranno ancora destinati ai robot, ma in parte andranno a lavoratori in carne e ossa.

I maggiori profitti conseguiti dalle aziende permetteranno di incrementare i salari. I lavoratori, data la maggior capacità di spesa, potranno aumentare i consumi e la maggior domanda innescherà la creazione di nuovi posti di lavoro.

Non solo: la diminuzione dei prezzi, a parità di salari, permetterà ai lavoratori di accedere ad una maggiore quantità di beni.

L’esercito di Jeff. Un esempio di questo circolo virtuoso ce lo fornisce Amazon: l’azienda di Jeff Bezos negli ultimi 3 anni ha aumentato da 1.400 a 15.000 il numero di robot nei propri stabilimenti. Nello stesso periodo il tasso di crescita delle assunzioni umane è rimasto sostanzialmente invariato e il numero di dipendenti del colosso americano è passato da 124.000 a 341.000.


I robot aiutano Amazon a tenere i prezzi bassi: questo permette all’azienda di avere sempre più clienti che richiedono sempre più magazzini e più lavoro.

Ciò che accade è che la spedizione di ogni pacco richiede una percentuale sempre più bassa di contributo umano, ma la crescita nel numero di pacchi spediti supera di gran lunga il tasso di sostituzione della manodopera umana con quella robotica.

E la correlazione positiva tra evoluzione tecnologica e aumento dei posti di lavoro è confermata da numerosi studi sia in ambito manifatturiero, dove alle macchine è stato affidato un lavoro di tipo fisico, sia in ambito impiegatizio dove i lavoratori sono stati affiancati da computer.

Più lavora il robot, più guadagno io. Questa interpretazione così ottimistica dell’automazione non è comunque esente da critiche: una delle più diffuse evidenzia come la progressiva adozione delle macchine andrà a discapito soprattutto dei lavoratori più deboli, che svolgono attività a bassa specializzazione e con salari molto bassi. È davvero così?

In realtà la rivoluzione industriale del XIX secolo ci racconta una storia diversa: tra il 1830 e il 1900 i salari dei lavoratori inglesi occupati nelle fabbriche di tessuti dove erano entrati i telai automatici sono più che raddoppiati. Il mercato del lavoro chiedeva persone capace di lavorare con le macchine ed era disposto a pagarle bene.

Una nuova economia. Sembra dunque che l’avvento della tecnologia porti a una sostituzione delle competenze richieste ai lavoratori.

Tra la metà dell’800 e la fine del ‘900 il numero di lavoratori americani impiegati in agricoltura è passato dal 60% del totale a meno del 2%.

È però cresciuta dal 20 al 90% la quota di coloro che operano in settori nuovi, inesistenti nel secolo precedente: dall’industria automobilistica al terziario e ai servizi.

È una situazione che si sta ripresentando anche oggi: secondo McKinsey circa un terzo dei lavori svolti oggi dagli americani, 25 anni fa non esisteva: piloti di droni, sviluppatori di app, meccanici specializzati in veicoli elettrici sono solo alcuni esempi di queste nuove categorie. E prevedere quali lavori nasceranno nei prossimi 25-30 anni è praticamente impossibile.


Lavorare meglio. La stessa McKinsey, in una ricerca dello scorso anno, tranquillizza i catastrofisti: dopo aver analizzato 830 lavori nei diversi settori, gli analisti affermano che solo il 5% di questi potrà essere completamente automatizzato nei prossimi 10 o 20 anni.

Ciò significa che molti di noi, a tutti i livelli, dovranno cambiare il proprio modo di lavorare, probabilmente in meglio, perchè le parti più monotone e noiose o pericolose verranno svolte da macchine o sistemi automatici.


Meno figli, più robot. Ma se l’automazione del lavoro fosse invece una necessità? Buona parte dei paesi occidentali sta attraversando una fase di contrazione demografica: nascono sempre meno bambini, la popolazione invecchia e i lavoratori sono sempre meno. Le macchine potrebbero essere l’unica soluzione percorribile per mantenere costante il livello produttivo e quindi la ricchezza.

Problema immediato. Ovviamente la sostituzione dei lavori “vecchi” con quelli “nuovi” non sarà immediata: è quindi lecito attendersi un aumento della disoccupazione almeno nel breve periodo.

La stessa Casa Bianca, durante l’Amministrazione Obama, ha stimato una perdita di circa 3 milioni di posti di lavoro a causa dell’auto elettrica e Elon Musk, in occasione dell’ultimo World Government Summit di Dubai ha suggerito il reddito universale come tutela per i più deboli, visto che “ci saranno sempre meno lavori che i robot non saranno capaci di fare meglio di noi”.

Il tema insomma è caldo e sembra chiaro che dovrà essere gestito globalmente, a livello sociale ed economico, per assorbire quella che l’economista John Maynard Keynes nel 1930 definì “disoccupazione tecnologica”.

4 aprile 2017 Rebecca Mantovani
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