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Dimenticatevi gli arti robotici che schiacciano le bottiglie per troppa forza mal calibrata o le protesi posticce a comandi meccanici: CyberHand è una mano cibernetica che, grazie a un complesso sistema di elettronica e sensori, trasmette al suo proprietario un feedback sensoriale. Ossia l'esatta percezione dell'oggetto che sta toccando: liscio o ruvido, fragile, resistente... La protesi è infatti capace di comunicare direttamente con il sistema nervoso - periferico e centrale - del paziente.
CyberHand è parte del progetto LifeHand dell'ARTS Lab della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, diretto dalla professoressa Maria Chiara Carrozza e dal professor Paolo Dario. Nell'ambito di LifeHand si sperimentano interfacce neurali (collegate cioè al sistema nervoso del paziente) su soggetti amputati al braccio. In questo viaggio nell'eccellenza della tecnologia italiana abbiamo incontrato gli scienziati al lavoro su questi progetti e le persone che li stanno sperimentando: amputati a cui è stata impiantata la mano robotica.
CyberHand ha 5 dita indipendenti in alluminio, acciaio e fibra di carbonio e somiglia, per forma e dimensioni, a una mano normale. Peso a parte, che è di circa 2 chili. Ogni dito è munito di speciali sensori che danno all'amputato la sensazione reale del tocco e di un motore che permette la flessione delle falangi. Un motore aggiuntivo controlla invece il movimento di opposizione, quello che permette di afferrare un oggetto tra il pollice e un altro dito.
Filo diretto con la mente. Il ponte che permette il dialogo tra mano e cervello è rappresentato da 4 elettrodi in tungsteno dello spessore di un capello (10 milionesimi di millimetro). I dispositivi, molto fragili e simili a lunghi filamenti, sono stati impiantati nel novembre 2008, con un lungo intervento al microscopio presso il campus bio-medico di Roma, nei nervi mediano e ulnare dell'arto sinistro di Pierpaolo Petruzziello, all'epoca 26enne, che all'età di 24 anni ha perso mano e avambraccio in un grave incidente stradale.
Traduzione simultanea. Gli elettrodi sono stati poi collegati a un'interfaccia che registra gli impulsi nervosi inviati dal cervello ai nervi periferici dell'arto e li traduce in segnali digitali, ossia il linguaggio dalla mano bionica. Questa avanzata apparecchiatura, per ora esterna, dovrebbe in futuro essere incorporata nell'arto.
L'intervento è la prima parte di un lungo percorso per abituare il cervello a comunicare il nuovo arto. Uscito dalla sala operatoria, Pierpaolo ha dovuto seguire 24 giorni di training intensivo per imparare a comunicare con la mano a distanza. Sforzandosi di controllare i propri impulsi cerebrali, al termine dell'allenamento è riuscito a compiere in autonomia movimenti fondamentali come aprire e chiudere il pugno o effettuare una presa a pinza.
Studi neuropsicologici stanno ora esplorando la possibilità che una mano bionica possa essere effettivamente integrata dal cervello nella propria rappresentazione corporea, ossia nella mappa che il cervello ha delle parti del nostro corpo. Questo, se possibile, trasformerebbe l'innesto in un vero e proprio "pezzo di ricambio" accettato e coordinato dalla mente come fosse un arto biologico.
Stimolare il moncone. Petruzziello non è stato il solo a provare la mano cibernetica: prima di lui l'ha utilizzata Robin af Ekenstam, un giovane svedese amputato alla mano destra in seguito a un tumore. Nel caso di Robin, però, non è stato applicato alcun elettrodo ai nervi dell'avambraccio. La mano, più leggera e munita di 40 sensori che rilevano pressione e posizione delle dita (propriocezione), attraverso una serie di stimolatori comunica con determinati punti del moncone, dove l'amputato "sente" la mano come se gli appartenesse. Nel caso di Robin quindi, è stato utilizzato un dispositivo esterno, realizzato da un team di ricercatori europei (svedesi dell'università di Lund, italiani della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa oltre che irlandesi, israeliani e danesi), che invia al cervello la percezione del tatto. «È incredibile», afferma Robin raccontando la sua esperienza, «quando afferro un oggetto duro riesco a sentirlo sulla punta delle dita. Ed è strano visto che le dita non le ho più». Qui sotto, un breve video dei suoi test:
Dopo la perdita traumatica di un arto il cervello si "riorganizza" e spesso alcune aree cerebrali vicine a quelle che prima controllavano l'arto, per esempio quelle responsabili dell'avambraccio, vanno a occupare il posto lasciato "vacante".
Capita così che alcuni particolari punti dell'arto per il cervello dell'amputato corrispondano al mignolo, all'anulare, e così via, della mano mancante. E che quindi il paziente abbia la sensazione di "sentirla" pur sapendo che non c'è più. Trovando quegli esatti punti del moncone e andando a stimolarli, ecco che si ottiene l'illusione voluta. Applicazioni future. Dopo CyberHand, SmartHand: pesa solo 600 grammi, cosa che, sperano i ricercatori, potrebbe forse permettere, in futuro, di impiantarla direttamente sul moncone (e non semplicemente "appoggiarla", come nel caso del giovane svedese, o comandarla a distanza come per Petruzziello). Lo sviluppo delle protesi robotiche è però ancora lontano dall'essere concluso: servono ancora tempo e finanziamenti per la ricerca e la sperimentazione in un settore che vede l'Italia all'avanguardia.