Digital Life

Facebook spento per un mese: l'esperimento della Papua Nuova Guinea

Il Paese spera così di fare pulizia di falsi profili e account che diffondono fake news e pornografia. Curiosa iniziativa, in un contesto in cui solo il 12% della popolazione ha accesso a Internet.

Niente Facebook per un mese, per vedere l'effetto che fa. L'esperimento sociologico non è nuovo, ma questa volta a compiere il "grande salto" non è un giornalista o un ricercatore, bensì un governo nazionale. Il Ministro della Comunicazione della Papua Nuova Guinea, Sam Basil, ha dichiarato che il Governo del Paese chiuderà Facebook, cioè ne impedirà l'accesso, per 30 giorni, per dare modo a una squadra di analisti di studiare le conseguenze che la piattaforma ha sul benessere, la produttività e la sicurezza dei dati dei papuani.

Pulizie (e controllo). «Questo tempo permetterà di raccogliere informazioni per identificare gli utenti che si celano dietro a falsi profili, quelli che caricano immagini pornografiche o che postano informazioni false e tendenziose, affinché possano essere filtrati e rimossi», ha spiegato Basil: «ciò consentirà alle persone genuine con identità reali di usare i social network responsabilmente».

Il ministro ha aggiunto che il blocco della piattaforma darà la possibilità di capire se il Paese stia meglio con o senza social, ed eventualmente di valutare l'opportunità di creare una versione nazionale del social media, su misura per i cittadini.

Le motivazioni. L'iniziativa sarebbe stata incoraggiata dalle rivelazioni dello scandalo Cambridge Analytica, tuttavia la vulnerabilità dei dati dei papuani non è l'unica preoccupazione dichiarata del Governo, che si dice contrariato dalla pubblicità mirata e invasiva, dalle ricadute del social sulla produttività e da generali problemi di cyber-sicurezza.

Ci sono altre ragioni? Come sempre accade per i provvedimenti imposti dall'alto, le perplessità non mancano. Per Aim Sinpeng, esperta di politica e digital media dell'Università di Sydney, intervistata dal Guardian, i precedenti casi di messa al bando di Facebook sono avvenuti in Paesi sotto elezioni, o in cui il social media è stato censurato definitivamente, come in Cina.

«Un mese di tempo è un limite interessante, per un blocco, ma non sono del tutto sicura di che cosa vogliano ottenere, o del perché si renda necessario un bando. Si possono fare analisi su Facebook senza chiuderlo. Che tipo di dati vuole raccogliere il governo? Se la preoccupazione è per le fake news, ci sono molti modi di agire senza chiudere una piattaforma», spiega la ricercatrice. Il tutto avviene in un Paese, la Papua Nuova Guinea, in cui il 12% appena della popolazione ha accesso a Internet, e nel quale gli utenti di Facebook rappresentano pertanto una minima frazione dei cittadini.

I precedenti. D'altro lato la creatura di Zuckerberg è nel mirino delle autorità politiche di mezzo mondo, accusata di leggerezza (quantomeno) nella gestione dei dati degli utenti, di diffusione delle fake news e dell'avanzata dei populismi.

Lo scorso marzo, il governo dello Sri Lanka ha accusato Facebook di non essere intervenuta prontamente, e anzi di aver fomentato le tensioni tra buddisti e musulmani divenute più acute negli ultimi anni. La tesi sostenuta da molti è che nei Paesi emergenti, dove spesso la piattaforma è l'unica fonte di informazioni e in cui le istituzioni sono ancora giovani, algoritmi incapaci di arginare i post che incitano alla violenza finiscano per favorire il dilagare di estremismi e false informazioni, contribuendo all'incitamento all'odio.

4 giugno 2018 Elisabetta Intini
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