Da qualche anno a questa parte, con la popolarizzazione globale di Internet abbiamo potuto assistere anche ad un’invasione della rete in veste di nuovo spazio di protesta. Un paese in crisi, in cui le manifestazioni si susseguono e diffondono come fuochi nella prateria, stimola uno sviluppo polarizzato dei social network. Improvvisamente fioriscono le pagine di Facebook, parole d’ordine si impongono su Twitter, nascono movimenti e chat per coordinare la rivolta.
Nel caso dell’Egitto si sono formati gruppi come Anonymous: Operation Egypt in cui i manifestanti, ritenendo a torto o a ragione di essere al sicuro dietro una cappa di anonimato, studiano il modo migliore per storpiare il governo a furia di DDoS. Purtroppo il DDoS non è una tattica pulita. Sicuramente l’idea di sferrarli ha preso piede, ma personalmente dubito che i numeri siano sufficienti a ottenere i risultati voluti e come se non bastasse quando si assediano infrastrutture governative spesso si finisce per rendere instabile l’intera rete, oscurando a lungo anche le comunicazioni dei manifestanti.
Altri siti dedicati alle proteste egiziane si occupano di spargere le notizie che il governo cerca di sopprimere. Anche qui l’arma è a doppio taglio: per un “reporter” sincero quanti ce ne sono che inventano, spargono panico o bugie? Sicuramente il mondo dei social network è un fattore nuovo nel dissenso popolare. Come sempre, si tratta solo di un mezzo, buono o cattivo come la mano che lo sfrutta.