Ci sono il pacchetto news, il pacchetto film, il pacchetto sport, ma anche il pacchetto social e quello shopping. E hanno costi mensili che variano dai 5 ai 10 dollari ciascuno.
No, non stiamo parlando di una nuova pay-tv, ma di Internet. O, meglio, della nuova Internet che potrebbe nascere tra qualche anno grazie ad alcune derive della giurisprudenza statunitense che sembrano favorire gli interessi dei grandi provider e dei big della Rete rispetto a quelli degli utenti e delle realtà online più piccole.
La sentenza del 14 gennaio 2014
Ma andiamo con ordine e torniamo allo scorso 14 gennaio, quando la Corte d’Appello del District of Columbia Circuit deposita le motivazioni di una sentenza che vede contrapposti Verizon, uno dei più grandi Internet Provider degli Stati Uniti, e la Federal Communication Commission (FCC), l’ente governativo che regolamenta le telecomunicazioni in tutto il paese.
Secondo i giudici, la FCC non ha alcun diritto di impedire a Verizon (e a tutti gli altri provider USA) l’applicazione di tariffe di accesso a Internet differenziate in base alla velocità di erogazione delle pagine e dei servizi.
Ciò significa che un grande editore o un grande fornitore di contenuti digitali potrebbero essere disposti a pagare di più perchè il traffico diretto verso i loro siti viaggi su canali privilegiati, più veloci e meglio serviti rispetto a quelli che raggiungono il vostro blog o il sito di un editore minore.
All'estremo, gli editori potrebbero addirittura stringere accordi di esclusiva con gli internet provider così da permettere la fruizione dei loro contenuti solo a chi utilizza determinate connessioni. Quindi se il vostro sito di news preferito siglasse un accordo con il provider X, o vi connettete a Internet attraverso X o dovrete cambiare fonte di informazioni.
Internet di prima e seconda classe
I provider potrebbero insomma decidere quali servizi web rendere facilmente accessibili e quali far passare in secondo piano creando, di fatto, un’Internet di serie A e una di serie B. Agli utenti non rimarebbe quindi che la scelta tra maggiori costi per la connessione alla rete e un’esperienza online fortemente impoverita.
Questa sentenza mina alla base il principio della net neutrality che ha governato la rete fino ad oggi e secondo il quale le reti a banda larga devono essere prive di restrizioni sui dispositivi connessi e sulla fruizione dei servizi e dei contenuti da parte dell’utente finale. E poco importa che la sentenza del 14 gennaio stabilisca per i provider l’obbligo della trasparenza sulle regole adottate.
... e io pago!
Non tutti comunque sono d’accordo con le conclusioni dei giudici: NetFlix, il colosso a stelle e strisce nello streaming video (oltre 2000 dipendenti e quasi 50 milioni di dollari di utile) ha già dichiarato guerra alla sentenza, invitando gli Internet Provider a valutare l’impatto sull’opinione pubblica di decisioni impopolari.
E per gli utenti italiani? Che implicazioni potrebbe avere questa sentenza? Difficile dirlo, anche perchè nel nostro paese la net neutrality non è mai stata presa troppo sul serio dal legislatore. L’unco obbligo previsto dalla normativa è quello della trasparenza: i provider devono cioè essere molto chiari su eventuali limitazioni di accesso a determinati servizi come il peer to peer o la telefonia online.
Dal canto loro i grandi provider americani si difendono: Verizon ogni anno investe quasi 20 miliardi di dollari nelle infrastrutture di rete, che negli orari di punta sono occupate in gran parte da servizi come NetFlix o Youtube. Difficile quindi dire chi vincerà: molto più facile è invece prevedere chi uscirà sconfitto da questa insensata battaglia: come spesso accade, sarà l'utente finale.
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Una recente sentenza americana potrebbe riscrivere le regole di Internet e mettere in crisi la net neutrality. Rendendo l'accesso alla Rete molto più caro e meno democratico.
