L'inganno del multitasking | Massimo Polidoro

Il nostro cervello non è fatto per il multitasking e per gestire più cose contemporaneamente. Anche per questo - e soprattutto nella società moderna - è fondamentale vincere le distrazioni. Lo spiega Massimo Polidoro in un Focus Talks e nel suo recente libro Geniale.

Il nostro cervello non si è evoluto per il multitasking, anzi: quando deve prestare attenzione a piùcose contemporaneamente va in tilt. Lo dicono le più recenti ricerche scientifiche, l'esperienza, il buon senso e Massimo Polidoro le riassume tutte queste informazioni nel Focus Talks che potete vedere a inizio pagina. 

Multitasking e sovraccarico informativo sono un tema che Polidoro - giornalista, scrittore, divultarore scientifico e collaboratore fin dagli anni '90 di Focus -  tratta in uno dei capitoli del suo libro Geniale (Feltrinelli, 2022).

Oggi ci sono molte ricerche scientifiche e psicologiche che ci hanno chiarito meglio come funzioni il nostro cervello e che ci possono aiutare a sfruttarne al massimo le potenzialità. Quello che talvolta ci manca è un esempio e un maestro che trasformi la teoria in pratica, che ci appassioni e ci aiuti ad affrontare gli ostacoli.

È quello che ha avuto Massimo Polidoro quando a 18 anni ha avuto la possibilità di passare un anno intero accanto a James Randi, noto come "The Amazing Randi", illusionista di fama mondiale e campione della razionalità e del pensiero scientifico, omaggiato da figure del calibro di Isaac Asimov, Carl Sagan e del premio Nobel Richard Feynman. L'esperienza accanto al genio è stata una straordinaria scuola di vita e una palestra intellettuale senza pari, che gli ha consegnato tra le mani una "cassetta degli attrezzi" indispensabili per potenziare le sue abilità mentali e per costruire la vita che sognava. 

Geniale. 13 lezioni che ho ricevuto da un mago leggendario sull'arte di vivere e pensare di Massimo Polidoro (Feltrinelli, 2022) è disponbile in versione tradizionale e anche come ebook.

Il libro. Oggi quell'esperienza riprende vita proprio in Geniale (Feltrinelli, 2022), un libro in cui Massimo Polidoro ha raccolto 13 lezioni che ha appreso da Randi lavorandoci accanto, affrontando problemi e difficoltà con lui, osservando il suo esempio.

Sono lezioni fondamentali che tutti possono applicare alla propria situazione. Nascono dalla vita e dall'esperienza di una persona straordinaria, ma si adattano a ciascuno di noi perché forniscono una serie di strumenti universali, utili per ragionare meglio, sfruttare tutte le nostre capacità intelletuali, capire la realtà e coltivare le proprie passioni.

Massimo Polidoro ci ha permesso di pubblicare una delle 13 lezioni, L'importanza del focus, dedicato al sovraccarico informativo e multitasking.

Mettetevi comodi, evitate le distrazioni e buona lettura.

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L'importanza del focus

Non disperdere le tue attenzioni

I primi tempi, dopo il mio arrivo a casa di Randi, trascorrevo ore a osservare e a sfogliare i tantissimi libri della sua biblioteca, facevo passare i numerosi faldoni accumulati in ordine alfabetico nei suoi schedari, leggevo articoli, trovavo ritagli, scoprivo fotografie… E ogni volta che scovavo qualcosa che mi sorprendeva e volevo saperne di più, correvo alla sua scrivania emozionato.

"Randi, guarda che cos'ho trovato! Che cos'è questa…". Dopo l'ennesima interruzione, iniziò a mettere in atto una pratica per frenare il mio ardore. Prima ancora che completassi la domanda, sollevava il dito indice e, senza staccare lo sguardo dal computer, mi diceva di contare fino a venti, in silenzio. Tra parentesi, di lì a poche settimane saremmo andati insieme allo storico Chinese Theatre sulla Hollywood Walk of Fame, a Los Angeles, quello dove sono impresse nel cemento le impronte delle mani e le firme delle più grandi celebrità del cinema. Andammo a vedere il nuovo film di Steven Spielberg, Indiana Jones e l'ultima crociata, e, dopo pochi minuti dall'inizio, scoppiamo entrambi a ridere.

Al culmine dell'emozionante scena iniziale, il giovane Indiana Jones (interpretato da River Phoenix) si precipita nello studio del padre, Henry Jones (interpretato da Sean Connery), emozionato per l'incredibile rivelazione che non vede l'ora di fargli. Ma il padre che cosa fa? Impegnato su alcuni testi, alza un dito e, senza nemmeno guardare il figlio, gli dice: "Conta fino a venti… in greco!".

La stessa identica scena che si era ripetuta più volte tra noi nei giorni precedenti. Inevitabile scoppiare a ridere, tanto più che in quel periodo, Randi somigliava veramente molto a Sean Connery nei panni del padre di Indiana Jones, con la stessa barba bianca e gli occhiali senza montatura.

Il messaggio di Randi/Jones Senior, però, era identico: "Non mi distrarre in questo momento, perché posso prestare la mia attenzione solo a una cosa per volta". Ma come, non si è sempre detto che chi ha una mentalità geniale è anche un multitasker, una persona capace di pensare e fare più cose contemporaneamente? Ogni volta che se ne manifestava l'occasione, Randi mi faceva capire chiaramente che per lui non era affatto così: poteva prestare attenzione solo a una cosa importante per volta. Ma, lungi dal sembrarmi un suo limite, questa sua richiesta mi faceva pensare che, forse, preda dell'entusiasmo, sbagliavo io a saltare da una novità all'altra, desideroso di scoprire e apprendere subito ogni cosa.

Come avrei poi avuto modo di approfondire meglio in seguito, tornato in Italia, quando avrei iniziato a studiare psicologia all'Università di Padova, quello del multitasking è in realtà un mito, molto diffuso certo, ma privo di qualunque fondamento scientifico. Per rendersene conto, però, è necessario capire meglio come funziona la nostra attenzione.

Sovraccarico informativo. È stato calcolato dagli studiosi dell'Università della California, a San Diego, che ogni giorno una persona, attraverso lo smartphone, il computer, le mail, i social, la tv, la radio, i giornali, è bombardata in media da oltre 100.000 parole e 34 gigabyte di informazioni. È uno studio che ha già qualche anno e, dunque, non c'è dubbio che queste cifre vadano probabilmente raddoppiate. Qualcuno può pensare che il cervello che ci ritroviamo nella nostra scatola cranica, non diverso per dimensioni da quello dei nostri antenati Homo Sapiens cacciatori-raccoglitori di quindicimila anni fa, sia fatto per gestire questa mole di informazioni? Assolutamente no. Si parla infatti oggi di information overload, cioè di "sovraccarico informativo" o, ancora meglio, di "sovraccarico cognitivo". Che cos'è? Pensate a quando fate una ricerca su Google: volete sapere qualcosa e il motore di ricerca vi restituisce 24.000 possibilità tra cui scegliere. Un po' troppe, giusto? Ci sentiamo sopraffatti da tanta abbondanza, e questo ci fa senti-re confusi, stressati e disorientati.

A rendere celebre questo concetto è stato, nel 1970, Alvin Toffler, nel suo celebre bestseller Future Shock, un libro che aveva al centro dei suoi ragionamenti sul futuro il fatto che ci stavamo ormai trovando in una situazione in cui avremmo dovuto affrontare troppi cambiamenti in troppo poco tempo. Cinquant'anni dopo la profezia di Toffler è pienamente azzeccata.

Il nostro cervello ha capacità straordinarie di ricevere, valutare e analizzare le informazioni, ma ha anche dei limiti. Può non essere facile, per esempio, distinguere tra ciò che è importante e ciò che è perfettamente inutile, superficiale o, peggio, fuorviante. Farlo richiede uno sforzo di concentrazione e non sempre è sufficiente. Qualsiasi sforzo mentale, poi, non è gratuito, ha un prezzo: i neuroni sono cellule viventi, con un proprio metabolismo, hanno cioè bisogno di ossigeno e glucosio per sopravvivere, e quando lavorano troppo si affaticano e, di conseguenza, ci sentiamo stanchi o con la mente appannata.

Ogni volta che aggiorniamo il feed di Facebook, controlliamo le storie su Instagram, i tweet, i messaggi su WhatsApp, le mail… ci troviamo di fronte una foresta di richiami che competono per catturare la nostra attenzione. Senza contare che magari mentre lo facciamo stiamo anche salendo o scendendo da un taxi o da un autobus, oppure stiamo cucinando, cercando le chiavi o, peggio, stiamo parlando con qualcuno. Davvero c'è da stupirsi se ci perdiamo dei pezzi per strada, se sbagliamo la fermata del bus, se non troviamo più gli occhiali o se chi abbiamo di fronte perde interesse nei nostri confronti?

Consideriamo il celebre esperimento elaborato da Daniel Simons dell'Università dell'Illinois e ormai diventato un classico della ricerca psicologica [Vedi video qui sotto, ndr].

A un gruppo di soggetti viene mostrato un filmato in cui un gruppo di ragazzi gioca a palla; il compito dei soggetti consiste nel contare i passaggi fatti da una delle due squadre. Al termine dell'esperimento, oltre la metà dei soggetti non si accorge che, a un certo punto del filmato, compare un tizio vestito da gorilla, che cammina in mezzo ai giocatori, si batte il petto e poi se ne va. Naturalmente, quando poi si fa rivedere il filmato il gorilla lo vedono tutti. L'effetto è così sorprendente che in molti si rifiutano di credere che sia lo stesso video, alcuni si convincono di aver visto due filmati diversi.

Ancora oggi, ogni volta che propongo questo esperimento di fronte a un pubblico, più della metà delle persone non si accorge del gorilla. È un test che ci dice molto sulla nostra capacità percettiva. Ci fa capire, per esempio, che la testimonianza oculare va valutata con molta cautela, perché davanti ai nostri occhi può accadere qualcosa di assolutamente cruciale e noi potremmo non accorgercene. E perché accade ciò? Perché la nostra attenzione è selettiva. È un po' come immaginare che nel nostro cervello ci sia un controllore, un filtro, che valuta quali sono le informazioni importanti e quali invece pensa di poter ignorare. Se siamo a una festa e parliamo con un'amica riusciamo ad ascoltarla e a capire che cosa dice anche se c'è rumore, c'è musica e ci sono altre persone che parlano. È una delle grandi conquiste dell'evoluzione.

Ma questo che cosa significa? Che se il nostro cervello deve scegliere a che cosa prestare attenzione, ignorando tutto il resto, vuol dire che non può dividere la sua attenzione su due compiti contemporaneamente. Ed eccoci dunque arrivati al multitasking.

Il mito del multitasking. Spesso siamo portati a pensare che il cervello sia un multitasker, cioè che possa svolgere più compiti contemporaneamente. Del resto, noi possiamo camminare e allo stesso tempo parlare al telefono, possiamo guardare un film e intanto lavorare a maglia, i musicisti compiono due attività diverse con ciascuna mano… e tutto questo è, in effetti, multitasking, ma funziona solo in ambiti molto limitati: camminare ci viene automatico e la nostra attenzione può così essere rivolta soprattutto alla conversazione al telefono (almeno finché percorriamo una strada conosciuta, altrimenti rischiamo di perderci o di attraversare la strada col rosso); lavorare a maglia è un'attività basilare e ripetitiva, che riusciamo a fare senza troppa concentrazione, in modo da poterci dedicare al film (ma, anche qui, senza esagerare, altrimenti rischiamo di saltare qualche punto); i musicisti riescono a eseguire movimenti diversi con le mani perché hanno dedicato così tanto tempo a esercitarsi da riuscire a suonare senza pensarci troppo, dedicando quindi la maggior parte dell'attenzione alla qualità dell'esecuzione, alle sfumature dell'interpretazione, allo stile…

Un conto, infatti, è svolgere due compiti contemporaneamente, dove uno dei due ci viene in modo spontaneo e automatico; una cosa completamente diversa è concentrarsi su due attività differenti e impegnative nello stesso momento.

L'attenzione, dunque, funziona bene solo se ci si concentra su una sola cosa alla volta. Quando ci vantiamo di essere abili multitasker, perché magari saltiamo da una mail a un messaggio su WhatsApp o perché scriviamo una presentazione mentre parliamo al telefono con un collega, in realtà stiamo costringendo il nostro cervello a passare in continuazione da un compito a un altro, affaticandolo inutilmente e costringendolo a bruciare le nostre riserve di glucosio. Il risultato? A fine giornata ci sentiremo esausti e i risultati che avremo ottenuto saranno inferiori alle nostre possibilità.

Ogni volta che ci troviamo a passare da un compito all'altro, dopo essere stati magari interrotti da una notifica sul cellulare, il nostro cervello deve impiegare tempo e risorse per interrompere il compito che aveva iniziato, cominciarne uno nuovo, portarlo a termine e poi riprendere il compito precedente. "A che punto ero rimasto?", "Che cosa stavo dicendo?" sono le tipiche frasi che diciamo quando riprendiamo un discorso lasciato a metà. Si calcola che una persona che viene interrotta impieghi il 50 % di tempo in più per portare a termine un compito e commetta fino al 50 % di errori in più.

È questo il motivo per cui guidare l'auto e parlare al cellulare espone a un rischio. Chi parla al cellulare non riesce a tenere la corretta distanza di sicurezza con il veicolo che lo precede, ha tempi di reazione più lenti, non nota gran parte dei segnali… Le statistiche dimostrano che gli unici ad avere più incidenti automobilistici di chi parla al telefono sono gli ubriachi. E non è solo il telefono: qualunque distrazione – anche allungarsi per prendere un oggetto mentre si guida – rischia di moltiplicare di molto il rischio di incidenti.

Multitasking è un termine nato nel mondo dei computer, per descrivere la capacità degli elaboratori di passare da un compito a un altro senza sforzo apparente, ma un computer non deve "pensare", non deve "recuperare il filo del discorso" né controllare le proprie "emozioni". Tuttavia, anche i computer hanno dei limiti: quando apriamo troppe finestre troppe applicazioni e proviamo a farle funzionare contemporaneamente il computer rallenta, a volte addirittura si blocca. È andato, un po' come noi, in overload!

Eppure, la convinzione di riuscire davvero a fare multitasking, o di essere addirittura molto bravi in questo tipo di attività, è ancora oggi diffusa. I ricercatori dell'Università di Stanford hanno messo alla prova questa convinzione, valutando la capacità delle persone di essere multitasker e la convinzione di essere brave a farlo.

I risultati hanno dimostrato che chi si trova spesso a svolgere più attività in contemporanea, e pensa che questo migliori la sua produttività, ha in realtà un rendimento peggiore rispetto a chi svolge un solo compito alla volta, peggiore perché fatica di più a organizzare i propri pensieri, e il passaggio da un compito all'altro lo rallenta in continuazione.

Il fatto di passare continuamente da un compito a un altro non ha effetti solo sul rendimento e sulla produttività. Un'altra ricerca dell'Università del Sussex ha messo a confronto la quantità di tempo che le persone trascorrono su più device in contemporanea (per esempio, guardare la tv e intanto scrivere messaggi o scorrere il feed su Facebook) con l'imaging a risonanza magnetica del cervello. Si è scoperto che chi pratica costantemente questo tentativo di multitasking ha una densità cerebrale inferiore nella corteccia cingolata anteriore, nella parte frontale del cervello, una zona responsabile dell'empatia e del controllo cognitivo ed emotivo.

La ricerca ha cioè dimostrato che sforzare continuamente quest'area del cervello può ridurre i livelli di empatia nei confronti degli altri, la nostra capacità di pensare in modo razionale e il nostro autocontrollo sulle emozioni. Convincersi di essere bravi nel multitasking, e magari continuare a scrivere messaggi e a scorrere il feed mentre si sta parlando con qualcuno, dimostra solo che stiamo perdendo la consapevolezza di noi stessi e la consapevolezza sociale. Non riusciamo a renderci conto che chi ci circonda si sente trascurato per il fatto che non gli prestiamo attenzione: che si tratti di colleghi o superiori, di mogli, mariti o figli, la perdita di un aspetto così importante dell'intelligenza emotiva è un prezzo davvero salato da pagare al multitasking.

E non è finita. Il costante tentativo di tentare il multitasking può portare al burnout, vale a dire a "bruciarsi", a esaurirsi. Il burnout è uno stato di esaurimento emotivo, fisico e mentale e l'Oms classifica questa sindrome come una forma di stress lavorativo che non si è in grado di gestire con successo. Chi ne è colpito non è più capace di affrontare il proprio carico di lavoro quotidiano con le risorse disponibili e finisce per soffrire di esaurimento cronico.

Direi che ce n'è più che a sufficienza per ripensare all'idea del multitasking e per abbandonare qualsiasi illusione che sia realmente possibile metterlo in pratica.

E allora, come ne usciamo? Come possiamo diventare più efficienti senza rischiare un esaurimento nervoso? Come possiamo imparare a gestire meglio la nostra attenzione, a dosare meglio il nostro tempo, e riuscire così a ritrovare le nostre energie, a coltivare le nostre passioni e a riscoprire il nostro scopo nella vita?

È quanto Randi mi ha aiutato a mettere a fuoco, ed è l'argomento della prossima lezione.

© Feltrinelli

3 maggio 2022 Focus.it
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