I raggi cosmici sono particelle e nuclei atomici di alta ed altissima energia che, muovendosi quasi alla velocità della luce, colpiscono il nostro pianeta da ogni direzione ed interagendo con gli atomi e le molecole dell’atmosfera producono dei veri e propri sciami di particelle secondarie. Come dice il nome stesso, provengono dal Cosmo, cioè dallo spazio che ci circonda. La loro origine è sia galattica che extragalattica. L’esistenza dei raggi cosmici fu scoperta dal fisico tedesco Victor Hess agli inizi del XX secolo. All’epoca gli scienziati si trovavano di fronte a un problema che non riuscivano a spiegare: sembrava che nell’ambiente ci fosse molta più radiazione di quella che poteva essere prodotta dalla radioattività naturale.
I raggi cosmici hanno energie che variano in un intervallo molto ampio. La loro energia si esprime nell’unità di misura chiamata elettronvolt (eV) e va da circa 108 eV (ovvero 100 MeV) fino a 1020 eV, che corrisponde grosso modo all’energia cinetica di una pallina da tennis lanciata a 100 km/h .
I raggi cosmici di energia più bassa sono i più numerosi, mentre il loro numero diminuisce all’aumentare dell’energia. Per esempio, il numero di raggi cosmici che arrivano sulla Terra con energia intorno a 109 eV (1 GeV) è di circa 1 per m2 per secondo, ma diventa 1 per m2 per anno a 106 GeV e addirittura solo 1 per km2 per secolo alle energie più alte mai osservate (1020 eV). Per questo motivo è molto difficile riuscire ad osservare i raggi cosmici di energia elevatissima. Ma da dove vengono e da cosa sono prodotti?
Quando i raggi cosmici di alta energia interagiscono con gli atomi e le molecole dell'atmosfera terrestre producono sciami di particelle secondarie di energia più bassa. La coltre di gas che circonda il nostro pianeta rappresenta un efficace schermo che ci protegge dagli effetti negativi di queste particelle ionizzanti.
Circa 60 anni fa Enrico Fermi per primo propose un meccanismo in grado di spiegare le enormi energie raggiunte dai raggi cosmici che permeano la nostra Galassia. Lo confermano adesso le recenti osservazioni della missione per lo studio dei raggi gamma che la NASA ha dedicato proprio al famoso scienziato italiano. Il satellite Fermi, infatti, al quale l’Italia collabora con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ha trovato la prova conclusiva che le cose stanno effettivamente come era stato ipotizzato dal grande fisico italiano.
Secondo l'ipotesi di Fermi, i raggi cosmici vengono accelerati in dense nubi di gas magnetizzato in movimento. Per molti anni questo “meccanismo di Fermi”, con le sue varianti, è rimasto l’unico praticabile e proprio per la sua importanza la NASA ha deciso di dare il nome di Fermi al grande osservatorio spaziale per l’astronomia gamma lanciato nel giugno 2008. Negli ultimi 50 anni gli astrofisici hanno individuato nei resti delle supernove i siti cosmici più adatti a creare le condizioni previste da Fermi. E oggi il Large Area Telescope (LAT), il rivelatore per raggi gamma di alta energia collocato a bordo del satellite Fermi, ha infatti osservato in vari resti di supernova un’intensa emissione gamma correlata con gli inviluppi di materia espulsa nell’esplosione e con la presenza di dense nubi di gas interstellare.
Un resto di supernova è la struttura risultante dalla gigantesca esplosione con cui improvvisamente termina la propria evoluzione una stella di grande massa quando ha esaurito il combustibile nucleare, che “bruciando” ne sorregge l’enorme massa contrastando la forza gravitazionale che tende a farla collassare. Il meccanismo svelato dal satellite Fermi è semplice e chiaro: i protoni, che costituiscono la maggior parte dei raggi cosmici sono inizialmente accelerati nelle collisioni fra gli strati di materia espulsa nell’esplosione di supernova e producono raggi gamma di altissima energia quando interagiscono con i nuclei atomici del gas interstellare. Le osservazioni di Fermi hanno mostrato evidenza di questo meccanismo in ben quattro resti di supernove di varie età (da estremamente giovani, cioè di poche centinaia di anni, ad altre risalenti a migliaia di anni fa). A più di 60 anni di distanza, quindi, l’ipotesi di Enrico Fermi trova una conferma sperimentale. Le nuove osservazioni raggiungono uno degli obiettivi fondamentali della missione e mostrano quanto sia ampio il suo contributo alla nostra comprensione dell’Universo. Aver capito dove i protoni vengono accelerati a velocità prossime a quelle della luce è un risultato di grandissima importanza.