Spazio

Come bruciano (male) i satelliti

I test in speciali gallerie del vento hanno rivelato l'inattesa resistenza alla distruzione di molti componenti dei satelliti durante il rientro in atmosfera: per evitare che possano precipitare intatti su centri abitati è necessario riprogettarli.

Alla fine della loro vita i satelliti artificiali più vicini a noi (in orbita bassa attorno alla Terra) diventano inutili e pericolosi. In teoria, precipitando e rientrando in atmosfera, l'attrito dovrebbe frammentarli e bruciarli del tutto, per la velocità di caduta e l'angolazione impostata per il rientro.

Se qualcosa resiste al trattamento in genere finisce in mare (la destinazione più probabile, visto che gli oceani coprono il 71% del pianeta), ma in rare occasioni è successo che frammenti incandescenti più o meno grandi siano caduti sulla terraferma, in qualche caso in prossimità di zone abitate. Per quel che ne sappiamo, a tutt'oggi è accaduto una sola volta che una persona fosse colpita (senza conseguenze) da un frammento di spazzatura spaziale, Lottie Williams, nel 1997, in Oklahoma (Usa).

Un pezzo di razzo caduto in Texas nel 1997. Da allora le normative spaziali sono molto più rigide, e in costante miglioramento.

La probabilità che le parti superstiti del satellite colpiscano centri abitati o persone è dunque estremamente bassa, ma non nulla, e a questo sta lavorando l'Agenzia spaziale europea (ESA).

Che cosa succede, esattamente, a questi gusci di metallo, fibra di carbonio e tecnologia durante il rientro? Per analizzare e studiare l'intera fase, nei laboratori dell'Agenzia Spaziale Tedesca (DLR) viene usata una particolare galleria del vento.

Rientro simulato. Nella struttura, sui diversi componenti di un satellite viene "sparato" gas ionizzato (plasma): un getto ipersonico alla temperatura di diverse migliaia di gradi, per simulare il plasma che si forma attorno ai satelliti, alle navette o alle meteore che entrano nell'atmosfera.

I pezzi forti. Nel video viene mostrato uno dei componenti più resistenti, la bobina magnetica, che "non si è comportato come avrebbe dovuto" (ossia vaporizzando, come si riteneva dovesse fare), e non è stato l'unico. La stessa inattesa resistenza è stata provata per alcuni strumenti ottici, per i serbatoi del carburante e del gas compresso, per i meccanismi di apertura dei pannelli solari e di controllo dei giroscopi.

I test hanno dunque riservato diverse sorprese e, come da premesse, i risultati dovranno servire a progettare satelliti pensati sia per andare nello Spazio, sia per non tornare indietro.

23 giugno 2019 Davide Lizzani
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