Fare sesso nello Spazio sembra già talmente complicato, che non capita spesso di immaginare come sarebbe portare avanti una gravidanza (sempre che sia possibile iniziarla) e poi partorire, fuori dalla Terra. A quest'ultima fase guarda una start-up olandese, SpaceLife Origins, che tra cinque anni vorrebbe inviare in orbita terrestre, a 400 km dal nostro pianeta, una donna incinta a termine, che possa far nascere il primo bambino nello Spazio.
Caro, è il momento. Nel concept teorizzato dall'azienda, la futura mamma salirebbe su una capsula spaziale assistita da un team medico appositamente addestrato, affronterebbe un lancio in travaglio o quasi, partorirebbe su una non meglio precisata stazione spaziale e tornerebbe a terra con il neonato, nelle 24-36 ore più complicate della sua vita. Il tutto dovrebbe accadere nel 2024 (l'anno ipotizzato da Musk per la partenza del primo equipaggio umano verso Marte).
ne sentivamo il bisogno? L'idea riportata in un articolo sull'Atlantic suscita una serie di interrogativi, il più importante dei quali è: perché? Secondo Egbert Edelbroek, uno dei dirigenti di SpaceLife Origins, Mission Cradle 2024 dovrebbe testare la possibilità, per la nostra specie, di riprodursi al di fuori del pianeta, e proseguire anche quando, della Terra, non rimarrà più nulla di abitabile. La stessa start-up vorrebbe inviare in orbita, per il 2021, spermatozoi e cellule uovo che possano formare embrioni nello Spazio.
Piedi per terra. Ma se la necessità di mettere su famiglia quando gli esseri umani si saranno "sistemati" su Marte o altrove è facilmente immaginabile, nella lista delle cose da risolvere prima di allora il capitolo nascita è decisamente in fondo. Molto prima di diventare una specie interplanetaria, dobbiamo capire come mantenere in salute un astronauta adulto sulla ISS; realizzare un motore capace di viaggiare nello Spazio profondo (più alcune "quisquilie" una volta arrivati, per esempio, su Marte: atterrare, respirare, coltivare, nutrirci, ripararci dalle radiazioni).
Una scelta di peso. Occorrerebbe trovare una donna disposta a esporre il figlio e se stessa ai rischi di un parto a 400 km di distanza dal suolo terrestre, sempre che mettere il nascituro in questa situazione le sia legalmente concesso. I medici coinvolti contravverrebbero presumibilmente al giuramento di Ippocrate: accantonando per un attimo il pensiero delle contrazioni coordinate al countdown del razzo, nessuno ha mai studiato gli effetti di un'accelerazione pari a tre volte la forza di gravità su una donna in gravidanza (sei volte, in caso di atterraggio di emergenza).
La futura madre non potrebbe sfruttare la gravità per partorire il bambino, e il pensiero di un'epidurale somministrata da un anestesista fluttuante, o dei fluidi corporei liberati in assenza di peso, sembra tratto da un film dell'orrore.
Gli esperimenti sulla riproduzione animale condotti nello Spazio (su topi, lucertole, pesci e invertebrati) ci dicono che i cuccioli hanno bisogno di gravità: i ratti venuti alla luce negli anni '90 sugli Shuttle sono nati con problemi al sistema vestibolare, necessario all'equilibrio.
Nato a...? Il bimbo spaziale respirerebbe l'ossigeno viziato nella capsula alla prima boccata d'aria, dovrebbe sopravvivere con la madre a un brusco rientro in atmosfera e, una volta a Terra, sempre che fin qui sia andato tutto liscio, affronterebbe ignaro l'annoso problema del certificato di nascita: signora, che cosa scriviamo?