Le missioni marziane della Nasa raccontate da Sarah Stewart Johnson, planetologa dell'Università di Georgetown nel suo ultimo libro.

Fino a pochi secoli fa Marte era soltanto un minuscolo punto di luce sopra le nostre teste che per millenni aveva alimentato miti e leggende. Poi sono arrivate le prime osservazioni ai telescopi, tra cui quelle fondamentali di Giovanni Schiapparelli. Negli ultimi cinquant'anni poi gli uomini ne hanno setacciato la superficie e il sottosuolo attraverso telescopi, sonde, satelliti, lander e rover spaziali: una corsa all'esplorazione senza precedenti.

L'ultima tappa di questa corsa alla scoperta di Marte è già in corso: il 9 febbraio la sonda spaziale Hope degli Emirati Arabi Uniti ha completato il proprio inserimento nell'orbita di Marte; oggi, 10 febbraio, è stata la volta di una sonda cinese Tianewn-1 che ha raggiunto Marte ed è entrata in orbita correttamente, mentre a maggio dovrebbe far atterrare un piccolo rover sul suolo marziano); infine il grande finale, con l'ammartaggio del rover Perseverance della NASA, che atterrerà (incrociando le dita) sul Pianeta Rosso il 18 febbraio alle ore 21:55 italiane, diventando il quinto rover a completare il viaggio dal 1997. Sarà impegnato in una missione di astrobiologia per cercare segni di antica vita microbica e tenterà di far volare per la prima volta un elicottero-drone da 1,8 chilogrammi, su un altro mondo. 

 

A quest sfida esplorativa, scientifica e tecnologica è dedicato il libro Marte. L'ultima frontiera, edito da Sperling & Kupfer. Scritto da Sarah Stewart Johnson, planetologa dell'Università di Georgetown, ripercorre la storia delle spedizioni che l'uomo ha compiuto su Marte – e delle loro scoperte – in cerca di segna di vita, e che hanno trasformato il Pianeta Rosso da luogo remoto distante anni luce dalla Terra in un mondo vero e proprio che ci è famigliare, ma su cui abbiamo ancora tutto da imparare. 

Ne pubblichiamo il prologo.


Tra i migliori titoli del 2020 secondo il New York Times, Marte. L’ultima frontiera di Sarah Stewart Johnson (Sperling & Kupfer - 16,90 €) è in libreria e sugli store digitali dal 9 febbraio 2021.

Nonostante la prodigiosa facilità dei viaggi moderni, ancora oggi impiego molti giorni per arrivare alla pianura di Nullarbor: tre o quattro voli diversi, una rapida doccia a Perth, quindi un tragitto di una o due notti in direzione est su un furgone a noleggio. Seguo all'infinito la carreggiata a due corsie che si snoda attraverso le città fantasma dei vecchi giacimenti auriferi australiani, poi mi inoltro su una serie di polverose strade di roccia rossa.

Quando spengo il motore e scendo dal furgone, tutto è immobile. Sono finalmente arrivata dove comincia il deserto. Ogni due anni vado nell'arcaico territorio del cratone Yilgarn, dove si trovano alcune fra le rocce più antiche al mondo.

Per tutta la pianura color ocra scuro sono disseminate pozze ovali che contengono acqua corrosiva come acido di batteria. Ciononostante, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, anche queste acque sulfuree ospitano una sorprendente varietà di vita. Mi reco là per studiare il modo in cui i microbi primitivi riescono a sopravvivere in queste durissime condizioni, come raccolgono energia e quali tracce lasciano nei minerali.

Sono una planetologa, e questo è uno dei luoghi della Terra più simili all'antica superficie di Marte. Vado al cratone Yilgarn, e in altri posti desolati e selvaggi come le valli secche McMurdo in Antartide o il deserto di Atacama in Cile, per affinare le mie capacità di trovare la vita. Quando sono nel deserto, mi alzo all'alba. Indosso la mia malconcia tenuta da campo e mi spalmo il viso di crema solare. Gli stivali ricoperti di sale scricchiolano mentre li infilo. Metto il cappello dalla cui falda, appesi con lo spago, pendono tappi di sughero tutto intorno alla testa per tenere lontane le mosche. Infilo nello zaino acqua e attrezzi e mi dirigo verso le pozze. Trascorro le giornate studiando i fanghi. In alcuni punti la terra si scava facilmente, mentre in altri i sali che la ricoprono sono duri come il ghiaccio. Annoto le coordinate GPS, mappo il terreno, analizzo i componenti chimici dell'acqua e determino quali minerali sono presenti. Raccolgo campioni di quel mondo incrostato di acidi che in seguito, una volta tornata in laboratorio, analizzerò fiala per fiala.

Il sole è cocente, il vento sferzante, ma di rado me ne accorgo, tanto sono concentrata e immersa in quello che sto facendo. Alla fine di una giornata di lavoro, esausta, dopo aver ricaricato gli attrezzi sul furgone, mi arrampico sopra la cabina di guida ricoperta di polvere. Quando il sole comincia a tramontare, il cielo diventa rosa salmone e la polvere rossa è sospesa nell'aria, non è difficile immaginare di trovarmi su un altro pianeta.

Guardandomi attorno, avvolta dal silenzio, penso a tutti i miei predecessori: chi se ne stava in un deserto proprio come questo, chi sperava di lanciare segnali verso Marte con enormi trincee infuocate, chi aveva costruito giganteschi telescopi nell'aria immobile.

Sarah Stewart Johnson è una ricercatrice di planetologia presso l’Università di Georgetown. Ha conseguito un dottorato presso l’MIT di Boston e ha preso parte a Spirit, Opportunity e Curiosity, le missioni NASA su Marte che hanno preceduto Perseverance. © Brittany Waddell

Un ragazzo rannicchiato all'ombra di un'abbazia benedettina ansioso di mappare il proprio angolo di ignoto; un fotografo dell'Indiana che aveva scattato decine di migliaia di immagini sfocate di Marte, nella speranza che da almeno una si potesse intravedere qualcosa; un aeronauta francese che aveva pilotato un pallone a elio fin nella stratosfera, tanto in alto da rischiare di morire asfissiato, solo per raccogliere i dati che cercava.

Quella degli studiosi di Marte è una confraternita particolare, i cui membri sono da generazioni profondamente legati dall'enigma di un mondo vicino. È lecito domandarsi perché speriamo di trovare la vita sul pianeta rosso, dove negli ultimi due miliardi di anni non ci sono state piogge, non esistono né fiumi, né laghi, né oceani e la cui superficie, in assenza di erosione da liquidi, è segnata dai crateri che le meteoriti hanno scavato per milioni di anni. Marte non ha una tettonica a placche, è privo di un campo magnetico e ha un'atmosfera protettiva estremamente sottile. La sua superficie è silenziosa, esposta e sconcertantemente deserta. Eppure, tanto tempo fa, prima di diventare color ruggine, Marte somigliava molto di più alla Terra. Più piccolo, ma affine per dimensioni e composizione, inizialmente era ricoperto di una scurissima roccia ignea. Impenetrabili cumuli di lava diedero origine a enormi pianure vulcaniche, che contenevano basalto a sufficienza per flettere la crosta.

Quando il pianeta si raffreddò, sulla superficie si aprì una spaccatura tanto profonda da poter ospitare in uno dei suoi canaloni laterali l'intero Grand Canyon, e si formò uno dei massicci montuosi più grandi del sistema solare, che si erge su una scarpata alta quasi quanto l'Everest. I vulcani liberarono gas serra nell'aria, avvolgendo la superficie con una coltre di atmosfera. Dai dati geologici sappiamo che il terreno era caldo e umido, almeno in certi periodi. Più o meno nella stessa epoca in cui sulla Terra potrebbe essere nata la vita (probabilmente in piscine vulcaniche, in quelli che Darwin chiamava «piccoli stagni caldi»), l'acqua era presente anche su Marte, gravida di possibilità. Anzi, poteva essercene abbastanza da formare un oceano settentrionale, calmo e profondo, con un fondale liscio e piatto come le piane abissali del vasto Pacifico. Poi, fra i tre miliardi e mezzo e i quattro miliardi di anni fa, la Terra e Marte imboccarono due percorsi diversi e il secondo divenne un pianeta desolato. Quasi tutta l'atmosfera scomparve e lo stesso accadde con l'acqua. Marte fu stretto in una morsa gelida, un freddo più intenso di quello dell'Antartide, e si trasformò in un deserto arido e ghiacciato, esposto alle radiazioni solari e cosmiche ad alta energia.

Oggi la sua superficie è ricoperta da una polvere rossa con una consistenza simile a farina, che si solleva in mulinelli nell'atmosfera incredibilmente sottile.

Ciononostante, sappiamo anche che la vita è sorprendentemente resistente: riesce a adattarsi, può rifugiarsi in un crepaccio, è capace di conservarsi contro ogni nostra previsione e sa rivelarsi in modi inattesi. Tracce biologiche si nascondono nei luoghi più impensabili. Ed è proprio per questo che viaggio fino ai confini del mondo a caccia delle più impercettibili tracce di vita, cercando di imparare come trovarle. Nei territori più remoti dell'Australia, oltre la Rabbit-Proof Fence e la riserva naturale di Jilbadji, al di là di un aerodromo abbandonato, esiste fra le rocce e le dune un lago diverso da tutti gli altri. La sua superficie è cosparsa di salgemma, una forma di sale commestibile che ricorda la neve appena caduta. Usando una certa forza, in alcuni punti è possibile estrarre cristalli di gesso simili a denti di squalo ancorati alla mascella della terra: hanno la forma di una punta di lancia e sono grossi quanto una mano. Una volta liberati dal fango e messi controluce, brillano come pietre preziose. Al microscopio è possibile osservare i loro più minuscoli interstizi, che ospitano gocce scintillanti di acqua di lago celate in anfratti minerali: la vita catturata in una lama di cristallo. 

Queste inclusioni prismatiche sono solo una delle tante caratteristiche che stiamo tentando di trovare su Marte. Cerchiamo posti che custodiscano segreti, che abbiano conservato e protetto possibili tracce di vita. Da oltre cinquant'anni esploriamo quel pianeta con telescopi, sonde spaziali, satelliti orbitali, lander e rover. Ne abbiamo setacciato la superficie alla ricerca di vita presente e di tracce di vita passata. Siamo attratti dal suo aspetto selvaggio e desolato, con l'atmosfera color bronzo e gli implacabili deserti rossi. A ogni missione ci sforziamo di comprendere un mondo che ci appare al contempo riconoscibile e totalmente estraneo. E ogni volta che ci torniamo i misteri si infittiscono.

Nel frattempo, abbiamo creato un'intera branca della scienza attorno a qualcosa che riusciamo a malapena a scorgere nel cielo notturno. Quattrocento anni fa Marte era ancora una luce che brillava appena nel cielo, poco più di un'idea. I primi telescopi lo mostravano grande più o meno come ci apparirebbe un pisello se lo tenessimo tra due dita con il braccio disteso davanti a noi, e anche con i telescopi più moderni la situazione non è molto migliorata. Non avevamo idea di quale aspetto avesse la sua superficie e di che cosa fosse composta, se esistessero montagne e vallate.

Avevamo soltanto una mappa molto rudimentale. Non sapevamo se ci fossero nuvole né conoscevamo il colore del cielo. Siamo partiti quasi da zero. Siamo finiti in vicoli ciechi e più e più volte abbiamo sbagliato strada, eppure, quasi per miracolo, grazie alla passione, all'ingegno e alla perseveranza profusi in questa impresa, abbiamo cominciato a scoprire e comprendere un mondo diverso dal nostro.

In questo senso, la storia di Marte riguarda anche la Terra. È la storia di come siamo andati in cerca di un'altra fonte di vita nell'universo e di quello che questa ricerca ha significato. Marte è stato il nostro specchio, un riflesso rivelatore di ciò che albergava nel profondo dei nostri cuori, vi abbiamo visto un'utopia, un territorio inesplorato, un santuario, un oracolo. Mancando quasi completamente punti di riferimento, indicazioni o limiti, tutto era possibile: senza dati che potessero essere usati per indirizzare le nostre indagini e circoscrivere la nostra immaginazione, Marte è stato una tela bianca. Una tela che, poco per volta, la ricerca umana ha cominciato a dipingere. Marte possiede dunque una storia umana iscritta sulla propria superficie, anche se questa non è mai stata toccata da piede umano. Questo libro racconta la storia della sua esplorazione fin dagli albori della recente era spaziale, durante la quale abbiamo iniziato a scoprire la straordinaria storia naturale di questo pianeta.

La maggior parte degli esploratori di cui parlerò nelle prossime pagine – gli scienziati moderni e gli studiosi del passato a cui si sono ispirati – hanno sempre guardato il pianeta rosso con l'obiettivo di trovare qualcosa di più grande: una prova, una scoperta rivoluzionaria che dimostrasse che anche lì poteva esistere la vita. La loro ricerca – che oggi è anche la mia – era animata dall'intima speranza di riuscire nell'impresa, sapendo che anche il più fugace scorcio su un altro regno più grande, più profondo, avrebbe potuto cambiare tutto. Questo è ciò che ha segnato la storia dell'esplorazione di Marte. Il tentativo di mettere a fuoco un mondo lontano, perseguito per generazioni sfruttando gli ultimi ritrovati dell'innovazione tecnologica, non ha mai avuto come oggetto soltanto la conoscenza scientifica ma è sempre stato mosso da un'aspirazione quasi esistenziale a oltrepassare i nostri limiti, per scoprire la vera natura della vita e, in definitiva, superare l'idea che siamo soli nell'universo.

 

© 2021 Sperling & Kupfer

10 febbraio 2021
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