Spazio

La Nasa: 10 anni tra Terra e Luna, poi Marte

Abbiamo parlato con Charles Bolden (amministratore della Nasa) e Luca Parmitano del futuro dell'esplorazione spaziale: ecco che cosa ci hanno raccontato di Marte, Luna, Plutone e... incidenti a lieto fine.

«Entro il 2030 vogliamo che l'uomo possa raggiungere Marte, per restarci. Ma prima, nei prossimi 10 anni, faremo la spola tra la Terra e la Luna con Orion, per preparare il campo e sviluppare tecnologie e procedure»: è Charles Bolden, astronauta e amministratore della Nasa, a delineare con una semplicità quasi disarmante i futuri programmi dell'Agenzia spaziale americana.

L'abbiamo incontrato a Milano, dopo un'illuminante lezione tenuta agli studenti del Politecnico: facce e orecchie attente di futuri ingegneri aerospaziali, un settore di eccellenza dell'industria, e della ricerca italiane.

Con lui c'era anche l'astronauta dell'ESA Luca Parmitano, che ha raccontato dell'incidente avvenuto durante la sua seconda EVA e risposto alle domande sul futuro dell'esplorazione spaziale.

Tutti per uno. Al centro dell'incontro, il tema della cooperazione, fondamentale ingrediente delle missioni. «Sarete voi europei a occuparvi del modulo di rientro di Orion» dice Bolden. «Senza di esso, non andremo su Marte: quindi, per favore, fatelo».

Robot ricognitori. Tra noi e il Pianeta Rosso c'è anche un gap tecnologico: «La sfida maggiore sarà resistere alle radiazioni. Per il momento non è facile pensare a Marte come un luogo in cui portare la famiglia. Prima di mandarci l'uomo sarà opportuno inviarci robot umanoidi che preparino il campo, come fanno i militari prima di andare in guerra. Già ora sulla ISS abbiamo il braccio robotico Dextre, che Luca Parmitano ha già avuto modo di "conoscere"».

Charles Bolden: «Vi racconto che cos'è la Nasa: studia tanto, lavora duro, non aver paura dei fallimenti»

«Su Marte servirà anche una tuta leggera da poter indossare sempre e un sistema di supporto vitale, che non sono ancora pronti. Ma anche sistemi di riciclo dell'acqua, di smaltimento dei rifiuti biologici e della CO2, che ad oggi si rompono anche sulla ISS. Su Marte, non potremo permettercelo. Servirà anche un mezzo che nessuna compagnia commerciale, da sola, potrà realizzare».

Pianeta nano. E alla vigilia dell'arrivo della sonda New Horizons nell'orbita di Plutone, ci siamo spinti ben oltre Marte. Che cosa ci aspettiamo di trovare laggiù - chiediamo a Bolden - e quali saranno i dati più interessanti? «Non ne ho idea. Per questo la chiamiamo esplorazione, perché non lo sappiamo.

«John Grunsfeld, scienziato capo della Nasa, e autore di tre riparazioni spaziali di Hubble, ha detto in una conferenza stampa dopo l'atterraggio di Curiosity, qualche anno fa: "Faccio una previsione: Curiosity non scoprirà nulla perché è un robot, e in quanto tale raccoglierà dati, e li rimanderà sulla Terra in terabyte.

Scienziati e ingegneri li studieranno per anni: saranno loro a fare scoperte su questi dati"».

Dove la mente non arriva. «Noi esseri umani - aggiunge Luca Parmitano - abbiamo un dono che è allo stesso tempo un limite: l'immaginazione. Passiamo un sacco di tempo a immaginare situazioni che non abbiamo mai vissuto. La cosa più eccitante che ci aspettiamo di trovare là fuori, durante le esplorazioni spaziali? Quella che non abbiamo ancora immaginato. Non sapevamo cosa aspettarci da Philae e Rosetta, e guardate ora dove siamo arrivati. Questa è la vera natura dell'esplorazione spaziale. Non ce l'aspettavamo, e adesso è qui».

Rischi del mestiere. Non mancano le parole di ammirazione di Bolden per AstroLuca, che ha raccontato agli studenti le fasi drammatiche dell'incidente dell'acqua nel casco: «Se penso a quanto poco ci è mancato perché oggi non fosse qui a parlarne, mi vengono i brividi» dice guardando Kathy, la moglie di Luca presente alla conferenza. «Io odio vedere i lanci. Mi piace tantissimo trovarmi all'interno di un'astronave lanciata, ma detesto vedere i lanci, perché conosco i rischi».

«Per capire quello che ho provato - dice Parmitano - provate ad andare in bagno, spegnere la luce e infilare la testa nella vasca piena d'acqua per qualche secondo. Alla fine ero completamente isolato, avevo perso i contatti con Houston, facevo fatica a vedere, sentire e respirare. Mi sono mosso a tentoni, grazie alle centinaia di ore di addestramento che avevo alle spalle».

«La preparazione di un astronauta è di ottima qualità non perché prevede tutti i problemi, ma perché dà gli strumenti per affrontare qualunque difficoltà. Alla fine, anche quell'esperienza è stata positiva. Abbiamo identificato l'origine del guasto, e provveduto a rimediare. Quell'esperienza specifica non accadrà più a nessuno».

17 giugno 2015 Elisabetta Intini
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