Spazio

Un curioso retroscena tecnologico sulla foto del buco nero

Per realizzare la straordinaria immagine del buco nero si è dovuto ricorrere ad hard disk esterni: era impossibile spedire i dati via internet. E questo ha creato non pochi problemi agli spedizionieri…

La grande fotografa Diane Arbus era solita dire che che la fotografia "è un segreto attorno a un segreto". Nel caso della ormai celeberrima immagine del buco nero, che ha fatto il giro del mondo, avrebbe avuto ragione due volte: il segreto svelato del buco nero, catturato per la prima volta, ma anche quello di un "dietro le quinte" che ha reso possibile realizzare quell’immagine.

Come abbiamo già raccontato su Focus, la foto del buco nero è il frutto di un enorme sforzo tecnologico: per assemblarla sono stati utilizzati otto radiotelescopi in tutto il mondo - tutti sincronizzati per scansionare il cielo per diversi giorni. Ma la cosa curiosa è che la foto in sé non esisterebbe senza una tecnologia che oggi è da molti ritenuta obsoleta: gli hard disk esterni per computer.

Vecchio a chi? Mandati in soffitta dalle tecnologie cloud, che permettono di archiviare i file, anche di grandi dimensioni, su internet, i dischi “rigidi” si sono in questo caso rivelati indispensabili: i dati dei telescopi dovevano essere consegnati all'Haystack Observatory del MIT negli Stati Uniti e all'Istituto Max Planck per l'astronomia in Germania, per essere successivamente elaborati. Ma tutti e 8 gli osservatori avevano raccolto oltre 5 petabyte di dati. Cioè 5 milioni di gigabyte di dati: per trasmettere i dati via internet, con le tecnologie a disposizione degli osservatori che hanno partecipato al progetto, ci sarebbero voluti anni.

Così si è pensato di trasportarli su centinaia di hard disk, spediti attraverso corrieri. Il che un po’ cozza parecchio con l’idea che abbiamo del progresso: in un'epoca in cui il trasferimento di informazioni da un capo all'altro del mondo richiede solo un clic, alcuni passaggi restano ancora affidati alle vecchie maniere. Senza i cari vecchi hard disk esterni "di una volta", non avremmo potuto ammirare coi nostri occhi uno dei misteri dell’universo.

Spedizioni pericolose. Anche gestire la "logistica" delle spedizioni (che hanno coinvolto centinaia di hard disk) ha richiesto uno sforzo d’immaginazione. Per l'occasione sono stati confezionati degli moduli di 8 dischi ciascuno, in modo che si potessero registrare i dati sugli otto dischi con continuità, anziché su uno alla volta. Ogni modulo pesava circa 23 chili ed è stato "rivestito" con uno spesso strato di schiuma, come si fa quando si trasportano opere d’arte. Il responsabile delle spedizioni Dan Sousa ha dovuto chiedere le autorizzazioni per movimentare gli hard disk nei vari Paesi, facendo i conti con regole diverse e spesso severe.

Un caso su tutti: l’Antartide che ha richiesto la costruzione di una cassa di legno per trasportare i moduli, perché i contenitori di plastica lì non erano ammessi.

Copie uniche. Ma il problema principale era legato alla circostanza che, a causa della enorme quantità di dati contenuta, non era stato possibile realizzare copie extra di sicurezza dei dischi: se uno di questi fosse andato danneggiato o si fosse perso, sarebbe saltato l’intero progetto. Tutto questo, oltre ai costi elevatissimi che sarebbero stati necessari per inviare i dati su un cloud, ha fatto ritenere più conveniente assemblare i dischi e spedirli. Anche se pure questa soluzione non è risultata del tutto immune da incovenienti: la spedizione proveniente dal Polo Sud, per esempio, è arrivata mesi dopo, a causa all'inverno antartico. Un carico invece è stato rubato in Sudafrica: per fortuna si trattava del viaggio "di andata", con

gli hard disk ancora vuoti: se fosse accaduto durante il viaggio di ritorno, oggi forse non potremmo dire di aver visto la prima immagine di un buco nero.

4 maggio 2019 Eugenio Spagnuolo
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