Spazio

Ci fu vita su Marte. La tesi di due ricerche parallele

L'analisi delle foto scattate dai rover Opportunity e Curiosity permettono di affermare che alcune rocce marziane sarebbero del tutto simili a strutture fossili terrestri prodotte da organismi viventi. È la tesi, suggestiva ma  bisognosa di ulteriori conferme, di due ricerche parallele, una americana e una italiana.

In poco meno di una settimana due gruppi indipendenti di ricercatori hanno scoperto tracce di quelle che potrebbero essere forme fossilizzate di attività di organismi viventi su Marte del passato.

La prima ricerca viene dagli Stati Uniti ed in particolare da Nora Noffke, una geobiologa alla Old Dominion University della Virginia, che ha analizzato le immagini inviate dal rover Curiosity; la seconda è stata realizzata da un team composto da ricercatori del CNR e dell’Università di Siena, che invece hanno usato fotografie provenienti dal rover Opportunity. Partiamo da quanto sostengono questi ultimi.

Fossili prodotti da alghe. Lo scorso 30 dicembre è uscito sulla rivista International Journal of Aeronautical and Space Sciences un articolo che potrebbe rivoluzionare la ricerca della vita su Marte. Gli autori, tre ricercatori italiani, evidenziano, studiando le rocce sedimentarie fotografate dal rover Opportunity su Marte, microstrutture del tutto simili alle stromatoliti e alle altre microbialiti terrestri, cioè a strutture minerali che sul nostro pianeta sono state fabbricate da colonie di microrganismi, come le alghe unicellulari. In altre parole, su Marte vi sarebbero formazioni di origine biologica, sia pure fossili.

L'INSTANCABILE OPPORTUNITY. «Da più di 10 anni, il rover marziano Opportunity caracolla nei pressi dell'equatore di Marte. Per la precisione nella regione di Meridiani Planum, nel cui sottosuolo la sonda Mars Odyssey, dallo spazio, aveva già identificato grandi quantità di ghiaccio d'acqua» spiega il biologo e medico Giorgio Bianciardi, dell'Università di Siena, docente di microbiologia e astrobiologia, primo firmatario dell'articolo.

A caccia di mirtilli. «E, già nel 2004, Opportunity si imbatté in una delle migliori prove che abbiamo oggi per dimostrare che nel lontano passato di Marte l'acqua scorreva, letteralmente, a fiumi sulla superficie del pianeta rosso: un costone di roccia, chiamato Guadalupe, la cui morfologia era attribuibile all'erosione prodotta da acqua allo stato liquido. Sempre in quegli anni poi, alcuni ricercatori della NASA, nelle immagini di Opportunity, videro piccole rocce rotondeggianti, grandi da pochi millimetri ad alcuni centimetri, chiamate "mirtilli" (vedi anche gallery in basso): si tratta di sferule di ematite (ossidi di ferro), che si formano in presenza di minerali impregnati d'acqua».

I "mirtilli di Marte". Strutture che potrebbero essere state prodotte da organismi viventi

ROCCE DI NATURA BIOLOGICA. Ma per arrivare alla ricerca appena pubblicata è stato fondamentale l'apporto di altri due ricercatori italiani del CNR, Vincenzo Rizzo, geologo, e Nicola Cantasano, biologo dell'Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo: un team che già nel passato ha svolto numerose ricerche sull’esistenza di vita sul pianeta rosso. «Nel 2009 avevano iniziato a notare come la morfologia dei mirtilli marziani facesse pensare a una genesi di tipo biologico, cioè a sedimenti minerali costruiti da esseri unicellulari, come alghe microscopiche» continua Bianciardi.

A questo si aggiunge che, nel 2012, alcuni ricercatori australiani, studiando analoghe strutture terrestri con microscopi ad alto ingrandimento dimostrarono come i mirtilli terrestri (per esempio quelli presenti nei deserti americani dello Utah) siano effettivamente di origine microbiologica. «A quel punto, Rizzo e Cantasano mi contattarono per mettere insieme la loro esperienza geologica con la mia, in particolare nell'analisi dei segnali e delle forme biologiche». Questa collaborazione, dopo due anni di lavoro, ha portato all'articolo citato all'inizio, firmato a tre mani con loro.

Ecco una delle immagini presenti sul Lavoro pubblicato su IJASS. La somiglianza delle strutture evidenziate sulla Terra (microbialiti: colonie di microrganismi unicellulari) e su Marte (fotografate da Opportunity sul pianeta rosso) è davvero notevole (vedi i contorni automatici ottenuti dal sistema computerizzato, sulla destra). I parametri di forma frattale calcolati ne identificano la perfetta somiglianza.

CONFRONTO RIUSCITO. «In pratica», continua Bianciardi, «abbiamo confrontato una selezione delle immagini scattate dal microscopio di Opportunity con quelle di microbialiti e stromatoliti terrestri. In tutto abbiamo analizzato circa 40.000 microstrutture e abbiamo ottenuto una coincidenza pressoché perfetta. Avevo elaborato un sistema automatico di analisi delle immagini sviluppate che va a analizzare forme di tipo frattale per studi di tipo biomedico (campo dei tumori e dell’aterosclerosi) che si è rivelato perfetto allo scopo.

Confronto di strutture terrestri e marziane

Tutto coincide: la complessità a vari livelli di scala di ingrandimento, la sinuosità delle forme vermicellari evidenziate, le loro dimensioni minime e massime... Le misure dicono, in sostanza, che nelle rocce fotografate da Opportunity sono presenti fortissime evidenze di una genesi microbiologica. L’analisi statistica sembra non lasciare dubbi: le strutture fotografate da Opportunity sono identiche a quelle delle microbialiti terrestri». Nel lontano passato di Marte, quindi, colonie di microrganismi pullulavano sulla superficie marziana di Meridiani Planum. Forse ancora oggi?

LO STUDIO AMERICANO. La ricerca americana invece, si è soffermata sull’affioramento chiamato Gillespie, che si trova dove attualmente il rover Curiosity sta analizzando le rocce, all’interno del cratere Gale. Noffke ha studiato strutture di microbi fossilizzati per oltre 20 anni soprattutto in Australia, dove ha scoperto le più antiche impronte di queste forme di vita. Analizzando quanto ha visto sulla Terra con quanto mostrano alcune foto di Curiosity lo somiglianze sono a dir poco totali. Il suo lavoro è stato pubblicato su Astrobiology pochi giorni prima di Natale.

Cautela. Noffke tuttavia, è molto prudente e spiega che la conferma dell'origine organica di quelle strutture si potrebbe avere solo riportando a Terra dei campioni. Lo stesso si può dire dello studio italiano. Ma c'è un aspetto positivo in tutto questo: i due lavori non fanno che aumentare l’attesa per missioni in grado di raccogliere e riportare sul nostro pianeta rocce marziane, anche se, purtroppo, tutto ciò potrebbe avvenire solo alla fine di questo decennio.

Ha collaborato Luigi Bignami

7 gennaio 2015 Gianluca Ranzini
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