La prima toilette spaziale degna di questo nome fu installata sugli Shuttle negli anni '80: come si faceva, negli anni precedenti, al momento del bisogno? Per i primi, brevi voli spaziali russi e americani il problema non si poneva, salvo imprevisti: fu proprio per un ritardo di quattro ore sulla partenza di una missione che doveva durare in tutto 15 minuti, che Alan Shepard, primo americano a completare un volo suborbitale, si ritrovò a chiedere il permesso di urinarsi addosso.
Farlo uscire dalla capsula sarebbe stato troppo complicato e i tecnici di terra acconsentirono: la pipì mandò in corto i sensori per la temperatura nella tuta, ma quel volo, il 5 maggio 1961, fu comunque completato con successo.
In busta chiusa. Per le missioni Gemini e Apollo furono ideati per queste necessità due tipi di sacchetti. Per urinare, l'equipaggio dell'Apollo 11 e delle altre missioni lunari aveva a disposizione una sacca con all'estremità un dispositivo di contatto anatomico. Per utilizzarlo, gli astronauti dovevano indossare una specie di condom da sostituire quotidianamente. Non esistevano dispositivi pensati per il corpo femminile (Sally Ride, prima astronauta donna della NASA, avrebbe volato solo nel 1983): una questione mai del tutto risolta, e che tornerà a galla nella progettazione di tute per le missioni nello Spazio profondo.
Gocce di stelle. Quando "scappava", il sacchetto per la minzione era collegato a un sistema di aspirazione delle urine sistemato sotto ai lettini di guida della capsula. Una pompa a vuoto aspirava il liquido, che finiva in un apposito serbatoio. Le urine andavano però scaricate nello Spazio: un comando permetteva l'apertura dell'ugello del serbatoio e il vuoto del cosmo faceva da aspiratore naturale. L'urina ghiacciava immediatamente e, se illuminata dal Sole, offriva uno spettacolo quasi poetico, che gli astronauti hanno fin da subito chiamato Costellazione di Urione.
Un'operazione complicata. Per i rifiuti solidi si usava una busta di plastica con una apertura adesiva da attaccare al posteriore, equipaggrata con una speciale rientranza su misura per un dito, da utilizzare come "strumento per il distacco delle feci", che in gravità ridotta non è un processo così automatico come sulla Terra.
La manovra non era semplice né a prova di errore, e l'intera operazione poteva durare a lungo (non era infrequente che occorressero persino 45 minuti). Nel 1969, Tom Stafford, a bordo dell'Apollo 10 in orbita attorno alla Luna, a un certo punto esclamò «passatemi un fazzoletto, veloci, c'è un escremento che fluttua nell'aria» (o qualcosa di meno ripetibile, ma il senso era quello).
Il sacchetto veniva irrorato di una sostanza battericida e conservato per essere riportato a Terra per le analisi richieste dalla NASA, ben impacchettato per occupare il minore volume possibile. Durante le attività lunari, invece, gli astronauti indossavano un apposito pannolone, come avviene oggi durante le attività extraveicolari (EVA).
Il sistema era efficiente dal punto di vista ingegneristico, ma poco gradevole negli angusti spazi della capsula. Per evitare di trovarsi nella situazione di dover provvedere a questi bisogni, gli astronauti assumevano lassativi prima della partenza e farmaci che rallentavano l'attività intestinale durante il volo.