I recenti fatti di cronaca che hanno riportato le vicende di persone a cui il gelo è stato fatale e di altre che sono riuscite a sopravvivere a temperature (quasi) impossibili, ci ricordano una cosa: quando l'essere umano si trova a misurarsi con condizioni di questo tipo, la salvezza non è determinata solo da fattori fisiologici, ma anche da una straordinaria forza di volontà e dalla resistenza psicologica. In questo articolo scritto qualche anno fa da Luigi Bignami ripercorriamo alcune delle più sorprendenti storie di sopravvivenza, dove determinazione e capacità di mantenere la calma sono state decisive.
C'è chi, per farcela, si è trascinato per chilometri una gamba rotta tra pinnacoli e crepacci, e chi è arrivato ad amputarsi il braccio bloccato da una roccia: la storia dell'alpinismo mondiale e delle esplorazioni polari è costellata di vicende al limite dell'incredibile e di sopravvissuti che per forza di volontà e coraggio possono davvero essere definiti eroi. Il principale rischio al quale la montagna sottopone il corpo umano è quello dell'ipotermia (l'abbassamento della temperatura corporea sotto i 35 °C). Eppure ci sono casi di resistenza al freddo da record.
La salvezza in una sacca (d'aria). Basta pensare a ciò che accadde ad Anna Bågenholm nel 1999: durante una discesa con gli sci tra le montagne norvegesi, cadde a testa in giù in un laghetto ghiacciato. Una sacca d'aria le impedì di morire annegata, ma ci vollero 80 minuti per liberarla. Dopo 40 minuti, però, il cuore della donna si fermò. E durante il volo in elicottero non rispose ai tentativi di rianimazione. Ma in ospedale i medici sapevano che prima di dichiarare morta una persona in ipotermia bisogna provare a scaldarla. Così fecero: dopo quasi quattro ore dall'incidente, il cuore di Anna iniziò di nuovo a battere e dopo 10 giorni tutti i suoi organi avevano ripreso a funzionare. La donna trascorse due mesi in terapia intensiva e, nonostante alcuni piccoli problemi alle dita, è poi riuscita a riprendere le sue normali attività quotidiane.
Sotto la valanga, la salvezza arrivò da un coltellino
Anche essere sepolti da una valanga equivale a essere "lentamente raffreddati", come in un frigorifero. È successo per esempio ad Evert Stenmark, uno svedese che frequentava una zona montuosa per mettere trappole alle pernici. Travolto, rimase senza sensi per alcuni minuti. Quando si riebbe, constatò che il fiato gli aveva fuso la neve davanti alla faccia.
Poté così respirare normalmente e dopo un po', riuscendo a mantenersi calmo, riuscì anche a liberare un braccio. Con la mano prese un coltellino che aveva in tasca e arrivò così a tagliare il rametto di una betulla che si trovava proprio vicino al suo corpo. Lo usò per perforare la neve che c'era sopra la sua testa e fece uscire dal piccolo foro un vecchio biglietto del cinema e il coperchio di una scatola di sciolina che casualmente aveva in tasca. I due oggetti sulla coltre nevosa attirarono l'attenzione dei soccorritori, che arrivarono però dopo sette giorni. Durante quella settimana, Evert Stenmark usò neve per bere e la sciolina, fatta di cera animale, per nutrirsi.
Quella volta che il gelo aiutò a resistere
Estrema anche la vicenda di Cedric Genoud, sciatore svizzero che, in un fuori pista azzardato, fu travolto da una slavina: per 17 ore, un pomeriggio e un'intera notte, rimase in un sarcofago di neve a 10 gradi sotto zero. Un tempo infinito. «Dopo 35 minuti, le probabilità di sopravvivenza delle vittime di valanghe scendono drasticamente sotto il 30 per cento e dopo un paio d'ore sono quasi nulle» spiega Giacomo Strapazzon, ricercatore dell'Istituto per la medicina di emergenza in montagna dell'Accademia europea di Bolzano. «Generalmente nelle valanghe il decesso, se non è provocato dall'impatto stesso, sopraggiunge per asfissia o ipotermia. Anche quando si ha uno spazio minimo per respirare, il rischio è morire intossicati dall'anidride carbonica emessa respirando». Come fece Cedric? Lo spiegò lui stesso in ospedale: «Non potevo muovere né braccia né gambe, solo il collo, ma pochissimo. E poi, mangiando la neve e muovendo la testa, mi sono fatto un po' di spazio intorno al viso». Un debole spiraglio d'aria, proveniente dalla superficie, gli garantì il minimo d'ossigeno per non soffocare. Il gelo, paradossalmente, fece il resto. «Alla normale temperatura corporea, le cellule del cervello senza aria muoiono in 10 minuti, ma se fa freddo, il metabolismo rallenta e la resistenza dell'organismo aumenta» aggiunge l'esperto.
A volte insieme al freddo occorre sfidare la paura
Chi si inerpica tra le vette deve però saper affrontare anche rischi psicologici. La paura, per esempio. Ci si può trovare improvvisamente da soli a dover affrontare una situazione del tutto inaspettata. Solo stabilendo un piano d'azione preciso e magari cercando di familiarizzare con l'ambiente si può uscire dal panico e avere qualche possibilità.
È così che evitò la morte il noto alpinista Jean Bourgeois, durante una scalata invernale all'Everest, nel 1983. Accortosi di essere stato colpito da un piccolo edema cerebrale (era un medico specializzato in problemi d'alta quota), decise di scendere dai 7.000 metri dove si trovava al campo inferiore, lungo una cresta. Andò da solo. Per una distrazione scivolò sul versante opposto a quello sul quale stava salendo la spedizione. Impossibilitato a risalire, decise di scendere per quel versante (quello tibetano), e dopo diversi giorni di cammino arrivò a un villaggio.
L'alpinista che per salvarsi lasciò cadere il compagno
Ma il record di "sangue freddo" nell'alpinismo appartiene probabilmente al britannico Joe Simpson, partito con Simon Yates per le Ande peruviane nel 1985. La salita alla Siula Grande fu davvero molto complessa. La parete alternava scivoli di ghiaccio e passaggi di roccia molto difficili, da affrontare a quote comprese tra i cinque e i seimila metri. I due alpinisti dovettero fare fronte anche al brutto tempo, che fu particolarmente cattivo durante i passaggi più pericolosi che incontrarono sotto la vetta. Ma la cima venne raggiunta. La discesa dalla vetta, però, risultò molto più pericolosa: sul loro cammino trovarono un vero e proprio muro di ghiaccio, che doveva essere superato a ogni costo.
La perdita improvvisa di un appiglio fece sbilanciare all'indietro Simpson, che cadde. Atterrò su un terrazzino dove rimbalzò ancora all'indietro, cadde di schiena e iniziò a scivolare a testa in giù. Sentì un dolore lancinante: un ginocchio sembrava non esserci più, sentiva le ossa raschiare l'una contro l'altra. Yates non lo abbandonò e continuò a scendere, trascinandolo come se fosse stato una slitta. Mai mollare. Dopo 800 metri di discesa, però, Simpson scivolò in un crepaccio e si ritrovò a volteggiare nel vuoto. Non c'erano chiodi a trattenere i due. Passò quasi un'ora. Yates pensò che bisognava fare qualcosa, altrimenti sarebbe stato trascinato via dal peso del suo compagno. L'unica soluzione era tagliare la corda e lasciare che Simpson precipitasse. Non ebbe rimorsi: era la sola cosa da fare. Dopo un lungo cammino arrivò sul ghiacciaio e infine al campo base.
Ma Simpson non era morto. Quando si svegliò, si rese conto che si trovava nella pancia di un crepaccio.
Risalire con una gamba completamente inservibile era impossibile. C'era allora un'unica alternativa: provare a scendere di più per vedere se il crepaccio offriva una via d'uscita. La trovò. «Ce l'ho fatta ad uscire dalle tenebre di quella tomba, ma ora morirò di stenti alla luce del sole» pensò l'alpinista. Ma non si lasciò andare. Iniziò a scendere a saltelli, reggendosi su una sola gamba, ma procedere nella neve in quel modo era quasi impossibile. Si distese allora sul fianco sinistro e si trascinò in avanti. Riuscì a trovare le orme del compagno e a seguirle strisciando. Arrivò il giorno dopo in fondo al ghiacciaio ma la strada fino alle tende era ancora lunga. Con il sacco a pelo si medicò il ginocchio per tenerlo rigido: procedeva sul terreno puntando la piccozza, portava avanti la gamba sana, si appoggiava e saltava. Scese la notte ma continuò a camminare finché trovò le tende. Yates era ancora lì e portò l'amico all'ospedale di Lima.
A volte la salvezza passa attraverso scelte estreme
La stessa determinazione consentì la sopravvivenza di Aron Ralston, un americano di 28 anni impegnato in un trekking solitario nel Blue John Canyon (Canyonlands National Park, Utah) nell'aprile del 2003. L'esplorazione della forra non era particolarmente difficile, ma richiedeva molta attenzione per i massi che si trovano al suo interno e che devono essere superati in arrampicata. A meno della metà del percorso, Ralston dovette superare un grosso masso incastrato nel canyon. Apparentemente risultava immobile, ma appena il trekker gli passò sopra strisciando, cominciò a muoversi e trascinò Ralston verso il basso. Quando si fermò, il giovane si accorse che il suo braccio destro era rimasto incastrato tra il masso e la parete del canyon. Dapprima provò a tirare il braccio, poi a spingere il masso, ma non ci fu nulla da fare.
Passarono le ore e Ralston si rese conto che nessuno sarebbe venuto a cercarlo. Sperava tuttavia che qualcun altro potesse aver avuto il suo stesso desiderio di discendere il canyon e provò a resistere alcuni giorni in quella posizione. Al sesto giorno, quando si rese conto che l'infezione si stava propagando in tutto il braccio, prese la decisione: afferrò il coltellino e se lo amputò. «Fu un dolore simile a quello che si può provare immergendo il braccio in un pentolone di magma incandescente» ha raccontato.
Dalla salvezza lo separavano una calata in corda doppia per 20 metri da fare senza un braccio e il lungo ritorno a piedi nel deserto. Disidratato e ormai senz'acqua, sarebbe probabilmente morto ma fu individuato da un elicottero. Oggi Ralston possiede diverse protesi che usa per le attività di tutti i giorni e per fare sport, dalla canoa, all'alpinismo.