Con venti di intensità variabile tra i 90 e i 140 km/h, tra lunedì 29 ottobre e martedì 30 l'uragano Sandy era classificato di categoria 1, la prima delle cinque descritte nella scala Saffir-Simpson, meno empirica della scala Beaufort. Secondo questa classificazione, che ascrive alla categoria 1 il minimo dei danni, l'intensità del vento deve restare costante per un minuto almeno. Le misure pubblicate nei giorni successivi sulle pagine online dell'ente governativo Usa National Hurricane Center e di servizi meteo statunitensi come WeatherBug confermano questo andamento.
Tuttavia Sandy ha provocato ben più del minimo dei danni, con un comportamento ampiamente previsto già nei giorni precedenti il suo arrivo sulla costa orientale degli Stati Uniti. Ciò è stato spiegato col fatto che, al culmine del suo percorso, Sandy si è "caricato" inglobando correnti fredde polari, tempeste e altri uragani. E anche con la coincidenza della luna piena, ossia del massimo di marea.
Ma fenomeni di questa dimensione e potenza possono essere imputati anche ai cambiamenti climatici e, in ultima analisi, alle attività umane? Se lo chiedono ambientalisti e scienziati, ma da parte da parte dei climatologi non c'è una risposta netta.
Kevin Trenberth, del National Center for Atmospheric Research, definisce Sandy «un fenomeno ibrido frutto del caso», dovuto appunto alla presenza contemporanea nella stessa area di diversi sistemi climatici che hanno interagito tra loro amplificandosi e dando vita alla peggiore delle possibilità statistiche. Tuttavia in relazione a Sandy Trenberth non assolve i cambiamenti climatici indotti dalle attività umane: ritiene infatti che il 10% almeno dell'energia di tempeste e uragani sia dovuta al riscaldamento globale, che ha provocato dagli anni '70 a oggi l'aumento della temperatura media degli oceani di circa mezzo grado centigrado su scala mondiale.
Altri esperti, come Jennifer Francis, climatologa alla Rutgers University (New Jersey) danno maggior peso alle attività umane, a partire dalle responsabilità nello scioglimento dei ghiacci artici, fenomeno quest'anno esteso come mai prima. Per Francis sarebbero proprio le correnti atmosferiche che si sono originate sopra le regioni artiche - conseguenza dello scioglimento dei ghiacci - ad avere influenzato il clima oceanico e la rotta e la potenza di Sandy.
Al di là delle sfumature che danno maggiore importanza a una chiave di interpretazione piuttosto che a un'altra, gli scienziati sono invece concordi nell'affermare che uno dei maggiori problemi è oggi la mancanza di modelli climatici per l'analisi di fenomeni come Sandy. Ne è una prova il fatto che a distanza di due anni ancora si dibatte sul peso relativo delle possibili cause dell'eccezionale ondata di calore che si è abbattuta sulla Russia o, sempre nel 2010, sulla straordinaria violenza dei monsoni tra India e Pakistan.
Mancando conclusioni condivise è difficile anche fare previsioni, in particolare su come cambierà il clima nei prossimi decenni, quando tutte le proiezioni indicano che la temperatura degli oceani salirà di almeno 2 gradi centigradi. Kerry Emanuel, climatologo al Massachusetts Institute of Technology, si aspetta che fenomeni ibridi come Sandy saranno sempre più frequenti e, afferma, «sarà forse proprio Sandy, con tutti i dati che ha fornito, a farci fare un passo in avanti nello sviluppo di modelli di analisi e previsione, ma ci vorrà del tempo...».
Le conclusioni condivise, quando arriveranno, daranno un quadro più preciso del ruolo dell'uomo nei cambiamenti climatici? Ed è per davvero ciò che ancora ci manca di sapere per prendere decisioni di sviluppo differenti da quelle dell'ultimo mezzo secolo?