Scienze

Si può parlare di razze umane?

Dal punto di vista scientifico la distinzione razziale non sta in piedi. Le migrazioni dei nostri antenati infatti hanno mescolato i geni.

No, il termine razza non è scientifico: gli uomini non sono stati isolati geograficamente abbastanza a lungo da creare varietà genetiche distinte. L’uomo è da sempre in continuo movimento e le varietà continuano a diluirsi una nell’altra. Come ha dimostrato il genetista Luca Cavalli-Sforza, che ha demolito i fondamenti biologici del concetto di razza, le civiltà non sono strutture chiuse e isolate.

Geni comuni. La somiglianza genetica del genere umano è frutto della comunanza di antenati recenti e delle migrazioni, che hanno determinato unioni e scambi di geni fra individui provenienti da aree geografiche diverse. Le caratteristiche fisiche predominanti di certe popolazioni dipendono invece da un numero molto ridotto di geni e sono state selezionate dalle condizioni ambientali.

Razzismo vs scienza. Richard Lewontin fu il primo genetista a smentire senza ombra di dubbio il mito dell’esistenza di differenti razze umane. Eppure, quando gli chiesero se lui credesse nella razza, la sua risposta fu: «Certo, le razze esistono». Salvo poi indicarsi la testa e aggiungere: «sono tutte quante qui». Faceva riferimento, ovviamente, alla nostra immaginazione: l’unico “luogo” dove le superficiali differenze tra le diverse popolazioni umane vengono prese ancora sul serio. E allora, perché di fronte a evidenze così schiaccianti facciamo ancora fatica ad abbandonare questo pregiudizio?

Una cartina tedesca ottocentesca con la distribuzione delle razze.

Ragioni storiche. Nata per necessità politiche nel mondo postcoloniale, da sempre discussa in ogni disciplina e costantemente sottoposta all’indagine della scienza, l’idea che la specie umana sia divisa in razze, intese come gruppi all’interno della nostra specie, ciascuno caratterizzato da tratti fisici e comportamentali ben definiti, non è mai stata in alcun modo dimostrata con strumenti scientifici. Eppure è un’idea impossibile da sradicare dalle nostre menti, ancora oggi che una maggioranza schiacciante all’interno della comunità scientifica (e non solo) concorda sul fatto che si tratti di una bugia. La colpa, per così dire, potrebbe essere della nostra storia culturale ed evolutiva; apparentemente, un’eredità con radici troppo profonde per sradicarle con la sola forza della ragione.


Inutili cataloghi. Le differenze, evidenti e innegabili, tra gruppi umani che popolano aree diverse del globo risalgono ai primordi della nostra specie; l’idea che queste differenze fisiche, frutto di adattamenti all’ambiente, implicassero anche differenze psicologiche e comportamentali profonde, al punto da poter distinguere (e ordinare) le diverse popolazioni del mondo, è nata solo alla fine del XV secolo, quando il colonialismo portò l’uomo occidentale, e la sua necessità di dominio, in ogni angolo del mondo. Tempo due secoli e i maggiori antropologi dell’epoca cominciarono ad affannarsi a catalogare le presunte razze, e a inventare un criterio valido e universale per distinguerle tra loro. Risultato? Niente di niente.

Mentre la comunità scientifica dibatteva sul nulla, l’idea di “razza” era già diventata il più potente motore della nuova economia coloniale. Il trattamento riservato alle popolazioni africane deportate negli Stati Uniti per ridurle in schiavitù, per esempio, era la diretta conseguenza della loro appartenenza a un’altra razza, considerata intellettualmente inferiore. Nel XVIII secolo, intellettuali di tutto il mondo si appellarono alla cosiddetta scala naturae, l’ordine naturale (gerarchico) di tutte le specie viventi, e collocarono le popolazioni africane un gradino sotto la nostra.


Il rafforzamento di questi stereotipi nella cultura popolare, anche grazie a una sapiente opera di propaganda dell’intera classe intellettuale dell’epoca, portò infine alle leggi (americane e inglesi in primis) contro i matrimoni misti.

Stampelle scientifiche senza fondamento. L’antropometria, lo studio e la catalogazione delle misure e delle proporzioni del corpo umano, divenne la stampella scientifica su cui appoggiarsi: ogni razza poteva essere definita da un preciso set di numeri e statistiche, un’idea che non teneva in considerazione i cambiamenti tra una generazione e la successiva, e che eliminava in toto dal discorso l’evidente variabilità all’interno della stessa “razza”.


Bastò ripetere gli studi con un occhio a questi dettagli per capire come l’antropometria fosse basata sul nulla: agli inizi del XX secolo, Franz Boas pubblicò studi che dimostravano quante differenze ci fossero tra una generazione e l’altra della stessa “razza”, e quanto anche i valori medi di certi parametri si modificassero con il passare delle generazioni. Poi arrivò la svolta: la riscoperta delle leggi mendeliane sull’ereditarietà diede il via alla ricerca di tratti genetici puramente ereditari, utili a distinguere le razze tra loro. Ma anche la genetica non riuscì a trovare correlazioni tra razze e geni.

gli stessi geni. Oggi che conosciamo bene il nostro Dna ci rendiamo conto che le nostre differenze non sono nient’altro che sfumature, in termini genetici. A separarci dagli altri esseri umani c’è una percentuale minima del genoma: in media, ogni uomo è biochimicamente simile a ogni altro uomo sul pianeta per il 99,5%, una percentuale variabile secondo la distanza. Inoltre, «ogni popolazione mantiene al suo interno quasi il 90% della variabilità genetica (cioè tutte le varianti dei diversi geni) della nostra specie»; ecco perché stabilire dei confini è un esercizio inutile.

Né vale l’obiezione di chi paragona le presunte razze umane a quelle di cani o cavalli: «Quelle razze sono molto più distinte tra loro di quanto lo siano quelle umane.

Tutte le razze di cani, in particolare, sono state selezionate per renderle, per così dire, “omozigoti” rispetto ad alcuni geni, che sono presenti solo in quella razza e la definiscono», mentre tra gli umani la variabilità genetica è maggiore. Le razze, dunque, esistono davvero solo nella nostra testa: quella di distinguere e dividere è un’abitudine umana che risale, storicamente, quantomeno agli ateniesi del V secolo, che classificavano il mondo in “greci” e “barbari”. La visione bipolare del “noi e loro” è comune a tantissime culture, ed è una realtà psicologica che secondo alcuni ha radici profonde nella nostra storia evolutiva.

Secondo questa visione, l’idea di razza ha il suo embrione tra i cacciatori-raccoglitori: «Una società nella quale è fondamentale riuscire a classificare immediatamente qualcuno che non si conosce, come alleato o avversario». Il che dimostra che, per quanto duro voglia farci credere di essere, chi è razzista lo è soprattutto per paura.

15 gennaio 2018
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