In questi giorni che ricordano al mondo i 20 anni trascorsi dall'11 settembre 2001, una domanda ricorre un po' dappertutto: ricordate dove eravate o cosa stavate facendo quando ci fu l'attentato alle Torri Gemelle di New York? Qualunque sia la risposta, è innegabile che, tra le tante "cartoline" sbiadite che costituiscono i ricordi ordinari, quelle collegate a un fatto grave (come questo), che ci ha colpito o ci ha emozionato, sembrano stampate in modo più indelebile, come fotografie ancora ricche di dettagli e colori vividi. È solo un'impressione?
Ricordi molto speciali. In inglese, non a caso, questi ricordi sono chiamati flashbulb memories, quasi delle istantanee riprese con il flash. Ma sono davvero l'equivalente di uno scatto fotografico archiviato nella nostra testa? L'emozione provata per un evento può fissare in modo indelebile la memoria di cosa facevamo noi in quel momento? La risposta ha a che fare con il complesso rapporto tra la memoria e le emozioni, su cui gli scienziati si arrovellano da mezzo secolo.
Antonietta Curci, docente di psicologia generale all'Università di Bari, utilizza eventi pubblici ad alto impatto emotivo per capire come nascono, si consolidano e vengono recuperati i ricordi. In questo tipo di ricerche, i volontari raccontano che cosa stessero facendo quando si è verificato il fatto, a breve distanza dall'accaduto e, una seconda volta, anni più tardi. Le due versioni non coincidono quasi mai.
«Contraddicendo il senso comune, gli studi sperimentali ci dicono che una forte emozione dà più problemi che vantaggi nell'accuratezza dei ricordi», spiega Curci. Qualunque tragedia dell'età dell'informazione, dall'esplosione dello Space Shuttle Challenger agli attacchi terroristici dell'11 settembre, fino alla morte di personaggi famosi, è stata sfruttata per questo genere di indagini, e i risultati sono assai simili.
Uno degli studi più vasti, per esempio, ha esaminato come sono cambiati i ricordi sul crollo delle Torri Gemelle a New York. I ricercatori hanno sottoposto i questionari a decine di volontari, immediatamente dopo gli attacchi degli aerei e a distanza di uno, tre e dieci anni. Già un anno dopo, era chiaro che non più di due terzi di ciò che le persone ricordavano, corrispondeva a quanto detto inizialmente.
Eppure ne ero certo. A inaugurare questi studi e a coniare l'espressione flashbulb memories furono, alla fine degli anni Settanta, i due psicologi americani Roger Brown e James Kulik, che avevano in mente episodi come l'assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Brown e Kulik, inizialmente, avevano ipotizzato che i ricordi più carichi di emotività rimanessero davvero impressi in modo speciale, una particolarità che sarebbe un residuo della nostra storia evolutiva: per i nostri antenati, magari inseguiti da un predatore, poteva essere vantaggioso fissare in un solo colpo tutta la scena, per trarne indicazioni utili per il futuro.
Invece, non è così. Non sappiamo esattamente perché i ricordi si modifichino nel tempo. È però possibile che, richiamandoli alla mente, siamo noi stessi a cambiarli un po' ogni volta, magari inconsapevolmente, anche a seconda del contesto e delle persone a cui li raccontiamo. Le variazioni entrano allora a far parte del ricordo e si consolidano con esso, modificandolo. Per questo, dopo un certo tempo può capitarci di ricordare un evento in modo anche molto diverso da come è accaduto realmente.
In altre circostanze, invece, la falsificazione dipende da meccanismi diversi. Se, per esempio, qualcuno ci minaccia con una pistola, è probabile che l’attenzione si concentri sull’oggetto e che sfuggano i dettagli come, per esempio, i lineamenti del volto di chi impugna l’arma.
Questi vengono poi ricostruiti a posteriori, magari sbagliando. Nonostante questo, la caratteristica più tipica dei ricordi più carichi di emotività è il senso di sicurezza che li accompagna; il fatto che saremmo pronti a giurare che sia andata proprio come pensiamo. Tutto ciò pone particolari problemi quando i racconti sono prove da utilizzare in tribunale. Infatti, per quanto un testimone possa dirsi sicuro di sé, ciò che dice è sempre frutto di ricostruzioni.
Ricordi hackerati. I ricordi, poi, possono anche essere alterati e controllati, ed è stato dimostrato che, usando proprio la leva delle emozioni, è assai facile perfino impiantarne di falsi, convincendo qualcuno di aver vissuto davvero un certo episodio mai avvenuto. A partire dal 2015, la psicologa inglese Julia Shaw, della London South Bank University, ha condotto una serie di sperimentazioni su persone perfettamente normali, dimostrando che, con opportuni trucchi psicologici, è possibile innestare nella mente di chiunque la convinzione di essere stato protagonista di un fatto criminale, anche se non è vero nulla.
Ma questo tipo di condizionamento può essere anche involontario: nelle prime fasi di un interrogatorio, per esempio, può succedere che domande suggestive, in cui è già contenuto un elemento della risposta, alterino e contaminino il ricordo. Quando questo avviene, non c'è molto che possa essere fatto in seguito per distinguere il vero dal falso. Sono fenomeni che i ricercatori conoscono bene, ma che ancora sfuggono a molti poliziotti, giudici, avvocati.
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Tratto da un articolo di Chiara Palmerini pubblicato su Focus Extra.