Durante il festival della ricerca scientifica Trieste Next, tenutosi a Trieste dal 24 al 26 settembre scorso, abbiamo assistito a un interessante intervento del professor Pier Paolo Di Fiore, oncologo di fama internazionale e docente di patologia generale all'Università di Milano. Il titolo, "Il prezzo dell'immortalità", ci aveva incuriosito e al tempo stesso tratto in inganno: Di Fiore non si riferiva infatti all'immortalità delle nostre vite umane, ma all'immortalità (o meglio, al desiderio di replicazione eterna) delle cellule.
L'origine della vita risale alla comparsa della prima cellula, LUCA (Last Universal Common Ancestor, il più antico antenato comune universale), avvenuta probabilmente 4,5 miliardi di anni fa; tuttavia l'evento che ha permesso l'evoluzione di essere viventi più complessi – come noi – è stata la nascita degli organismi pluricellulari, composti cioè da più cellule. La pluricellularità è definita da Di Fiore come la «tecnologia abilitante per fare qualcosa di diverso», ovvero ciò che permette a ogni cellula di specializzarsi in una funzione diversa.
Mettere un freno. Ma la nascita degli organismi pluricellulari non basta, esiste ancora un ostacolo alla formazione della vita come la conosciamo oggi: se è vero che l'istinto delle cellule è quello di replicarsi, è altrettanto vero che occorre porre un freno, un limite a questa sete di immortalità. «Le cellule non possono replicarsi in modo indiscriminato», spiega Di Fiore, «devono farlo sono in certi momenti, quando è necessario, come ad esempio durante l'embriogenesi o quando altre cellule muoiono e devono essere sostituite». Per tenere a freno l'istinto base della vita, gli organismi creano quindi dei programmi molecolari che sopprimono l'anelito di replicazione delle cellule, permettendola solo quando è necessario.
Replicazione incontrollata. Quando però uno di questi programmi si altera e avviene una mutazione genetica (un refuso, un errore nel codice della vita), le cellule coinvolte tornano a essere libere di replicarsi in modo incontrollato: il prezzo di questa ritrovata libertà è lo sviluppo del cancro. L'istinto di immortalità cellulare si ritrova infatti anche nelle cellule staminali, presenti in piccola parte in ogni tessuto adulto dell'uomo: a loro, in condizioni normali, spetta l'importante compito di ripopolare un organo, sostituendo le cellule morte. «Sono le api regine del nostro organismo e danno vita alle cellule normali, semplici api operaie incapaci di replicarsi», spiega Di Fiore.
Le staminali sono sensibili alle mutazioni genetiche, e per questo sono all'origine del cancro: la loro natura molecolare, diversa da quella delle cellule normali, in certi casi ha permesso agli scienziati di costruire una terapia antitumorale mirata, che vada a colpire solo le cellule maligne bloccandone la replicazione, lasciando vivere il resto di cellule "sane".