Qualche giorno dopo la tragedia della Marmolada, i ricercatori del Gruppo di lavoro glaciologico-geofisico per le ricerche sulla Marmolada, che da vent'anni studiano il ghiacciaio, hanno voluto dare il loro contributo per comprendere cosa sta accadendo. Il ghiacciaio della Marmolada è il più grande delle Dolomiti, ed è ritenuto importante perché, rispondendo in modo molto rapido a variazioni anche minime di precipitazioni e temperatura, ha una funzione di "termometro dei cambiamenti climatici".
Sotto controllo. Il ghiacciaio è stato costantemente monitorato sin dai primi anni del secolo scorso dal Comitato Glaciologico Italiano (CGI) che ha raccolto dati, immagini e materiali, poi condivisi con la comunità scientifica.
Il dato più evidente è che il ghiacciaio della Marmolada oggi è grande un decimo rispetto a 100 anni fa: si è ridotto di più del 70% in superficie e di oltre il 90% in volume. E si tratta di un fenomeno in progressiva accelerazione, tanto che negli ultimi 40 anni la sola fronte centrale è arretrata di più di 600 metri risalendo nel contempo in quota di circa 250 metri.
In particolare la velocità di ritiro media è stata di:
- 0,5 metri/anno, tra il 1902 e il 1906
- 5 m/anno, tra il 1925 e il 1938
- 8,4 m/anno, tra il 1951 e il 1966
- 10,3 m/anno, tra il 1971 e il 2015
Le cause? Certamente gioca un ruolo importante l'aumento della temperatura. In particolare, l'aumento della temperatura minima invernale: sulla Marmolada, è cresciuta di 1,5 gradi nel corso di 35 anni di osservazioni.
Più cause insieme. Venendo al tragico crollo del 3 luglio 2022, che ha interessato la parte residuale del ghiacciaio centrale, i ricercatori sostengono che si è verificato per più cause, ciascuna delle quali ha avuto un diverso "peso specifico" che è ancora impossibile determinare. A contribuire al crollo sono stati «la forte inclinazione del pendio roccioso; l'apertura di un grande crepaccio che ha separato il corpo glaciale in due unità; la presenza di discontinuità al fondo e sui lati; l'aumento anomalo delle temperature che hanno influito sullo stato del ghiaccio; l'aumento della fusione con conseguente incremento della circolazione d'acqua all'interno del ghiaccio, che può aver innescato una crescita dello stress sulle superfici di discontinuità, e infine la fusione progressiva della fronte glaciale che ha fatto mancare sostegno alla massa sospesa».
Sulla possibilità che il fenomeno fosse prevedibile, i ricercatori evidenziano come prima del crollo non fossero stati osservati segnali evidenti di un collasso imminente.
«Salvo rarissimi casi», spiegano «nei ghiacciai, a differenza delle frane, non vi sono sistemi di allerta che misurano movimenti e deformazioni in tempo reale. I crepacci, che hanno avuto un ruolo fondamentale nel distacco, erano visibili già da diversi anni e di per sé fanno parte della normale dinamica glaciale».
E in futuro? Il distacco di seracchi è un fenomeno frequente nei ghiacciai e fa parte della normale dinamica glaciale, più raro il caso di collassi in blocco come quello verificatosi in Marmolada. Tuttavia, non tutti i ghiacciai presentano le medesime condizioni di pericolo che variano in funzione della temperatura, ma anche della morfologia, delle pendenze, delle dimensioni e di altri parametri. Ogni ghiacciaio va studiato singolarmente individuando i rischi specifici che si sommano a quelli già insiti nella frequentazione dell'ambiente alpino.
Eventi simili si sono già verificati in passato? Collassi di intere porzioni di ghiacciaio si sono registrati anche negli anni recenti in diverse aree delle Alpi. Solo un mese fa due alpinisti sono deceduti per il distacco di seracchi dal Grand Combin. Il ghiacciaio Planpicieux (Monte Bianco), sottoposto a monitoraggi dal 2020, aveva di fatto messo a rischio la sottostante Val Ferret. Un evento molto simile, anche nelle dinamiche, a quello della Marmolada si è verificato nel luglio del 1989 nel ghiacciaio superiore di Coolidge (Monviso), fortunatamente senza vittime. L'analisi della cartografia storica della stessa Marmolada evidenzia la probabile presenza di analoghi distacchi che potrebbero essersi verificati sul finire dell'800.
L'impatto del cambiamento climatico. Il ritiro dei ghiacciai è la manifestazione più evidente di un cambiamento climatico in atto i cui effetti sono visibili anche in molti altri fenomeni che interessano il pianeta. Ciò che desta maggior preoccupazione è la progressiva accelerazione del ritiro glaciale, che impone una revisione degli scenari climatici più ottimistici predisposti dagli scienziati.
Cosa possiamo fare? Nel lungo termine l'unica azione efficace è quella di trovare un accordo globale che consenta la riduzione dell'emissione di gas-serra per mitigare il riscaldamento terrestre.
Nel breve-medio termine si può solamente ricorrere a strategie di adattamento che consentano la razionalizzazione delle risorse e una maggiore efficienza nella realizzazione delle infrastrutture, nei processi industriali e nei modelli sociali.
E ora? Le previsioni sono sempre un esercizio piuttosto difficile quando si parla di sistemi naturali. Se saranno confermati gli attuali andamenti anche nei prossimi anni, è molto probabile che il ghiacciaio della Marmolada scompaia prima del 2040.
Se dovesse rallentare il processo di riduzione della massa glaciale, in ogni caso è improbabile che possa conservarsi oltre il 2060.
Solo pochi anni fa i modelli prevedevano una vita del ghiacciaio per altri 100 o 200 anni.
È evidente quindi come i modelli predittivi debbano essere costantemente aggiornati e migliorati e come sia fondamentale garantire (e possibilmente migliorare) il monitoraggio dei ghiacciai con particolare attenzione alle loro variazioni volumetriche.
Il gruppo di lavoro glaciologico-geofisico per le ricerche sulla Marmolada è composto da:
- Prof. Aldino Bondesan, glaciologo dell'Università di Padova, responsabile del Comitato Glaciologico Italiano (CGI) per il coordinamento della campagna glaciologica annuale nelle Alpi orientali.
- Prof. Roberto Francese, geofisico dell'Università di Parma e membro del Comitato Glaciologico Italiano
- Dr. Massimo Giorgi, Dr. Stefano Picotti, geofisici dell'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale - OGS