Il video qui sopra mostra l'evoluzione della nostra specie dall’Australopithecus afarensis, vissuto tra i 3 e i 4 milioni di anni fa, all'uomo moderno.
È stato girato per presentare un libro, Shaping Humanity - How Science, Art, and Imagination Help Us Understand Our Origins, scritto qualche tempo fa da John Gurche, uno dei più talentuosi paleoartisti viventi, e l'autore di queste eccezionali ricostruzioni realizzate per il Museo di Storia Naturale Smithsonian.
Nel libro Gurche descrive lo straordinario processo utilizzato per creare queste sculture. Si tratta di un lavoro molto complesso che necessita di competenze artistiche e scientifiche e che vede impegnati team di paleoantropologi, antropologi forensi, anatomisti, archeologi e chiaramente artisti.
MA COME SI REALIZZANO QUESTE RICOSTRUZIONI? L’intuizione che ci fosse una precisa relazione tra la struttura ossea del cranio e l’aspetto esteriore del volto venne negli Anni ’80 dell’Ottocento all’anatomista tedesco Hermann Welcker. Welcker misurò e catalogò lo spessore dei tessuti molli del volto in posizioni prestabilite (i cosiddetti “punti craniometrici”) di centinaia di cadaveri. Tutte le misurazioni furono inserite in un archivio, mediate statisticamente e classificate assieme ad altri dati come l’etnia, il sesso.
Con questo bagaglio di conoscenze, partendo da un cranio di una persona, era, ed è, possibile ricostruirne il volto. Infatti tale procedimento è arrivato quasi intatto fino a oggi, sebbene da allora la tecnica abbia fatto enormi passi in avanti.
FAccia a faccia. Nei laboratori dei ricostruttori si produce il calco in resina del cranio (preferibilmente passando per la meno invasiva Tac, che crea un modello virtuale tridimensionale), e vi si posizionano una serie di piccoli pioli con lo spessore corrispondente alle misure medie catalogate negli anni, poi vi si modella il volto. All’apparenza un gioco da ragazzi. Nella realtà un processo molto complicato che può portare a risultati molto diversi.
Per modellare la bocca si tiene conto della disposizione dei denti. a larghezza, per esempio, è determinata dalla distanza dei canini. Il naso è una delle parti più difficili da ricostruire: la forma è dedotta dalla conformazione delle ossa nasali. La grandezza degli occhi dipende dalle
dimensioni delle cavità nel cranio, mentre l'età (e l'etnia) contribuiscono a definirne la forma.
Per aggiungere realismo le “capigliature” degli ominidi più antichi si usa un mix di capelli umani e pelo di yak, che dà un effetto arruffato, simile a quello delle scimmie.
L'aiuto degli scienziati. Certo, la scienza dà agli esperti un grande aiuto (complice la natura, che conserva i crani anche per milioni di anni): l’analisi dei resti ci dice il gruppo umano, l’età al momento della morte, il sesso, i malanni di cui soffriva, la presenza di eventuali handicap, la dieta, il clima, le condizioni di vita.
E tutto questo permette una riscostruzione più accurata e precisa.
L'aspetto artistico interviene per dare "un'anima" alla persona ricostruita, ma sempre con un forte rigore scientifico: l’aiuto di anatomisti, paleontologi e archeologi è fondamentale per decidere il colore della pelle o l’aspetto dei capelli. Persino sapere in che fauna e flora viveva il soggetto aiuta: se, per esempio, gli animali che convivevano con l’ominide da ricostruire erano simili a quelli che compongono oggi la fauna africana significa che il clima era torrido, e pelle e capelli inevitabilmente scuri.