Scienze

La storia dell'australopiteco Lucy

Era il 24 novembre 1974 quando vennero scoperti i resti di Lucy, l'ominide più noto mai ritrovato e vissuto 3,2 milioni di anni fa.

L'australopiteco Lucy è la "nostra bisnonna". È l'ominide più famoso mai ritrovato e la sua scoperta - il 24 novembre 1974 - è stata fondamentale (ma non risolutiva) per disegnare l'evoluzione della nostra specie. Oggi ricorre l'anniversario della sua scoperta. Ecco la sua storia.

IL RITROVAMENTO DI LUCY. Il periodo compreso tra il 1973 e il 1977 viene definito da alcuni come il periodo dell'oro della paleoantropologia. Nei giacimenti fossili della regione di Afar, nel bacino dell'Hadar, a una sessantina di chilometri da Addis Abeba in Etiopia, furono portati alla luce migliaia di frammenti fossili di ominidi vissuti 3-4 milioni di anni fa.

Il 24 novembre 1974, il paleoantropologo Donald Johanson si mise a controllare un punto già analizzato in diverse occasioni senza particolare fortuna. Si accorse che c'era un fossile di un osso, probabilmente di un braccio, e si mise a scavare con cura. Nelle vicinanze la sua squadra iniziò a trovare altri frammenti, sempre più numerosi.

Gli studiosi si trovarono di fronte lo scheletro più completo di un antenato umano antico di oltre 3 milioni di anni: ben 52 ossa, tra le quali le ossa degli arti, la mandibola, alcuni frammenti del cranio, costole, vertebre e soprattutto il bacino, che permise di capire che si trattava di una femmina. La sera stessa, riuniti intorno al fuoco i paleoantropologi le diedero un nome: la chiamarono Lucy, prendendo spunto da una delle canzoni che nell'accampamento venivano ascoltate di più: Lucy in the sky with diamonds, dei Beatles.

Lo scheletro fossile di Lucy manca delle estremità inferiori, ma le ossa delle gambe e il bacino dimostrano che la stazione eretta era acquisita già 3,2 milioni di anni fa (è questa la datazione eretta dello scheletro): gli ominidi si muovevano quasi sempre in quella posizione, non solo per alcuni tratti.


CHI ERA LUCY. «Il suo cervello era un po' più grande di quello di uno scimpanzè», dice Donald Johanson, che la scoprì. «Le ossa erano adatte all’andatura eretta. Ma aveva ancora caratteri scimmieschi: viso prognato, naso schiacciato e fronte sfuggente». Gli arti superiori erano lunghi e questo indica che, pur camminando in modo molto simile a un uomo (anzi a una donna) moderna, Lucy sapeva arrampicarsi con agilità sugli alberi.

Era alta circa un metro e pesava probabilmente 25 kg. Lo spessore dello smalto dei denti, poi, indica che si nutriva prevalentemente di cibi piuttosto coriacei, probabilmente radici soprattutto. Per lei fu coniato anche il nome scientifico della specie: Australophitecus afarensis (da Afar, la zona del ritrovamento).

Come morì? Difficile stabilirlo data l'antichità delle ossa, ma poiché nello stesso “strato” geologico sono stati ritrovati frammenti dei corpi di almeno 13 individui diversi, qualche studioso ha azzardato l'idea che il gruppo possa essere deceduto per una improvvisa catastrofe naturale (forse un'alluvione) e che Lucy e gli altri siano la più antica testimonianza archeologica del fatto che gli antenati dell'uomo vivevano già in gruppo.

Secondo alcuni ricercatori, inotre, Lucy aveva circa 18 anni quando morì. Giovanissima? non proprio: secondo i ricercatori l’aspettativa di vita degli esemplari di Australopithecus afarensis era di circa 25 anni.

Attrezzi al posto dei denti. Due milioni e mezzo di anni fa, gli afarensis si divisero in specie diverse. «Alcuni», spiega Johanson, «scelsero una dieta vegetariana, sviluppando denti robusti. Altri preferirono una dieta onnivora, ricca di carne. Mandibole e denti ebbero così meno da masticare (a parità di volume la carne nutre più dei vegetali) e rimpicciolirono. In compenso crebbe la scatola cranica. E con essa il cervello». Anche perché, per rompere le ossa e ricavare il nutriente midollo in esse contenuto, questi nipoti di Lucy inventarono i primi attrezzi di pietra.

storia di famiglia. L’albero degli Hominini è molto “cespuglioso”, con tanti rami. Nel genere Homo, l’ultimo arrivo è H. naledi. Tra gli australopitechi c’è Lucy (A. afarensis); per alcuni studiosi uno di loro ha portato a Homo, per altri sono un ramo laterale con antenati comuni. I Paranthropus, noti anche come australopitecine robuste, erano bipedi, con denti e mandibole robuste. Il genere Pan (scimpanzé) si sarebbe separato dalla linea che ha portato a Homo attorno a 6,3-5,4 milioni di anni fa, secondo una stima genetica. Gli Ardipithecus sono infine le forme più ancestrali, bipedi sul terreno e con piccolo cranio (300-350 cm3); Sahelanthropus potrebbe essere un antenato di uomini e scimpanzé, secondo alcuni.

Album di famiglia. Ma la storia della nostra specie inizia qualche milione di anni prima. Sei milioni di anni fa, in Africa Orientale la foresta si era in parte ritirata, lasciando una serie di “isole” verdi, grandi boscaglie ricche di cibo separate tra loro da distese coperte da alti steli d’erba. Per passare da un’isola di foresta all’altra, le scimmie antropomorfe che da tempo prosperavano nella zona dovevano uscire allo scoperto e attraversare queste distese bruciate dal sole, dove i predatori erano in agguato.

La “discesa” dai rami. Alcune scimmie impararono che camminare per lunghi tratti sui soli arti inferiori poteva essere vantaggioso; così facendo potevano infatti scorgere in anticipo eventuali pericoli, oltre gli steli d’erba ingiallita. Ciò consentiva anche di usare gli arti superiori per brandire bastoni e lanciare sassi, il che, soprattutto muovendosi in gruppo, si rivelò un’efficace difesa collettiva. I camminatori più abili potevano quindi vivere più a lungo, fare più figli e garantirne la crescita. Il loro Dna passava in questo modo ai posteri, migliorando e fissando, di generazione in generazione, la caratteristica della deambulazione eretta. È così che gli antropologi spiegano l’origine del bipedismo, uno degli adattamenti più importanti dell’evoluzione umana grazie al quale, attraverso un lungo processo che ha visto nascere e poi estinguersi una ventina di diversi “ominidi”, si è arrivati alla nostra specie: Homo sapiens.


«La locomozione bipede lasciò le mani libere anche per il trasporto di cibo, oggetti e figli piccoli», spiega Giorgio Manzi, paleoantropologo dell’università La sapienza di Roma. «Mani adatte a una presa di precisione, che consentiva una migliore manipolazione di oggetti, e alla fabbricazione di strumenti di pietra, che potevano percuotere e quindi staccare schegge da ciottoli. Del resto, la manualità, in un circolo virtuoso, fu il presupposto per lo sviluppo del cervello». Calcolando, infatti, attraverso il Dna mitocondriale la “distanza genetica” fra le varie specie di scimmie antropomorfe e l’uomo moderno, la biologia molecolare ha stabilito che la separazione della nostra linea evolutiva da quella che ha portato ai gorilla e agli scimpanzé odierni avvenne circa 6 milioni di anni fa. Grazie all’affidabilità di questo orologio molecolare, i paleontologi hanno confermato l’intuizione di Charles Darwin sull’origine africana dell’uomo. Mancano ancora dati definitivi, ma in Africa sono state trovate tre specie fossili molto antiche, collocabili nella famiglia degli ominidi, i primati bipedi di cui anche noi sapiens facciamo parte.

Alle radici dell’albero. Il più antico di essi è Sahelanthropus tchadensis, scoperto in Ciad e vissuto circa 7 milioni di anni fa. Benché antecedente alla separazione della linea evolutiva dell’uomo, Sahelanthropus rappresenta la prima testimonianza di un ominide in grado di camminare su due gambe, sebbene in maniera imperfetta. «Studi recenti effettuati con la Tac su un cranio quasi completo di Sahelanthropus sembrano confermarne l’appartenenza alla famiglia degli ominidi», aggiunge Manzi. Più recenti sono Ardipithecus kadabba, trovato in Etiopia e di età compresa fra i 5,2 e i 5,8 milioni di anni, e Orrorin tugenensis, scoperto in Kenia e risalente a circa 6 milioni di anni fa. Di quest’ultimo, in particolare, è stato trovato anche un femore, la cui struttura ha fatto ipotizzare agli scienziati che fosse piuttosto abituato a muoversi su due gambe.

Cambio di passo. Ma la vera star della paleontologia, a qualche anno dalla sua straordinaria descrizione sulla rivista Science, è attualmente Ardi, una femmina di Ardipithecus ramidus, specie già in parte conosciuta ma della quale non si era mai trovato un esemplare quasi completo. Rinvenuta nella valle dell’Awash, in Etiopia, Ardi visse 4,4 milioni di anni fa. Il gruppo di ricercatori diretto da Tim White, dell’Università di Berkeley, grazie a questo scheletro ben conservato ha potuto definirne tratti e caratteristiche.

A giudicare dalla crescita delle ossa, si trattava di una femmina di 14 anni, alta 120 cm, con un peso stimato di 50 chili.

Il cervello era di soli 300 cm cubici, cioè meno di un quinto di quello di una ragazza attuale. Le braccia e le dita erano lunghe e i polsi rigidi, per consentirle di arrampicarsi bene sugli alberi. I suoi piedi presentano ancora l’alluce divaricato, come nelle scimmie. Le gambe erano corte e la struttura del bacino, già abbastanza largo, sembra suggerire che Ardi fosse un “bipede facoltativo”, che usava due zampe sul terreno e tutte e quattro quando camminava sui rami.

Confrontando le ossa fossili di maschi e femmine di Ardipithecus ramidus trovati in varie campagne di scavo, White ha concluso che i maschi erano solo poco più grandi delle femmine, il che significa che nelle comunità di questo ominide i rapporti sessuali non erano regolati dall’harem (un maschio grande con molte femmine, come nei gorilla), ma erano promiscui, come fra gli attuali bonobo o scimpanzé pigmei, in cui una femmina può accoppiarsi con diversi maschi.

Dieta e cervello. Se, come sostengono le più attuali teorie paleoantropologiche, lo sviluppo del cervello iniziò “dai piedi”, ossia dal modo di camminare, le orme fossili trovate diversi anni fa a Laetoli, in Tanzania, da Mary Leakey, capostipite con il marito Louis di una dinastia di cacciatori di fossili, provano che già circa 3,6 milioni di anni or sono i piedi degli ominidi (forse quelli della specie Australopithecus afarensis) erano simili a quelli dell’uomo attuale, e non più scimmieschi come li aveva Ardi.

Come detto, lo scheletro fossile di Lucy, la celebre donna scimmia (A. afarensis) scoperta in Etiopia dal paleoantropologo americano Donald Johanson, manca delle estremità inferiori, ma le ossa delle gambe e il bacino dimostrano che la stazione eretta 3,2 milioni di anni fa era acquisita: gli ominidi si muovevano quasi sempre in quella posizione, non solo per alcuni tratti.


grandi masticatori. All’epoca, le foreste si erano quasi del tutto ritirate e in Africa Orientale si era diffusa la savana. Il bipedismo quindi non doveva essere più solo una variante della locomozione per passare da una macchia di foresta a un’altra, ma un adattamento fisso.

Australopithecus afarensis aveva un cervello di 500 cm cubici, già più grande di quello di uno scimpanzé. Secondo le teorie più accreditate, l’albero dell’evoluzione a quell’epoca si divise in due rami principali. «Uno di questi rami comprendeva specie come Paranthropus aethiopicus (vissuto nelle attuali Etiopia e Tanzania), Paranthropus boisei (Tanzania e Kenia) e Paranthropus robustus (Sudafrica)», spiega Anna Alessandrello, paleontologa del Museo di Storia naturale di Milano.

«Questi ominidi avevano un cranio dotato di una cresta sagittale dove si inserivano forti muscoli masticatori ed erano muniti di mascelle possenti per triturare cibi vegetali coriacei, come le noci per esempio». Non a caso P. boisei venne addirittura soprannominato “Schiaccianoci”. «Negli ominidi appartenenti al secondo ramo, come Australopithecus africanus, la dentatura e le mascelle rimasero invece leggere, ma si sviluppò la scatola cranica», continua Alessandrello. Alcuni aspetti di questa ricostruzione sono però stati messi in discussione da alcuni studiosi, che considerano invece P. robustus come un discendente di A. africanus.


In ogni caso, gli scienziati concordano nel riconoscere a questo secondo ramo il ruolo di progenitore del genere Homo, cioè quello cui apparteniamo noi. Uno dei suoi primi membri è senza dubbio Homo abilis, trovato in Tanzania, datato 1,8 milioni di anni fa e per molto tempo ritenuto il primo ominide ad aver costruito utensili in pietra. Una teoria oggi messa in discussione in seguito al ritrovamento di strumenti di pietra più antichi dei primi fossili del genere Homo.

Primi cacciatori. H. abilis aveva una scatola cranica più sviluppata degli ominidi che l’avevano preceduto, ma mascelle relativamente meno potenti, perché la sua dieta era diventata onnivora: comprendeva cioè una buona base di carne, che si procurava facendo lo “spazzino”, cioè scacciando iene e altri predatori dalle carcasse degli animali morti, spesso agendo in gruppo con altri simili. I suoi utensili di pietra servivano soprattutto a rompere le ossa per mangiare il midollo, un cibo molto nutriente H. abilis è stato a lungo considerato il primo membro della linea evolutiva di Homo, ma una serie di nuovi ritrovamenti ha cambiato le carte in tavola. Il primo tra questi è quello di Homo rudolfensis, dotato di un cranio piuttosto grande e con molte caratteristiche in comune con H. abilis, ma che risale a un periodo precedente. Il secondo è Kenyanthropus platyops, rinvenuto da Meave Leakey, paleoantropologa del Museo nazionale del Kenya. Questo esemplare ha un cranio più piccolo e risale a più di 3 milioni di anni fa, ma la forma della faccia, la posizione degli zigomi e la struttura dei denti richiamano quelle di H. abilis e H. rudolfensis. Altri ominidi importanti erano Homo erectus e Homo ergaster (alcuni studiosi considerano il secondo la variante africana del primo).

Nasce la tecnologia. A essi sono attribuite alcune innovazioni tecnologiche, sia perché a loro si deve la produzione delle prime asce di pietra, sia per la capacità, se non di creare il fuoco, quantomeno di mantenerlo.

Soprattutto, pare che siano stati i primi ominidi a lasciare l’Africa e a colonizzare il Vecchio Mondo.

Migrazioni ed estinzioni. Circa 1,7 milioni di anni fa, l’intraprendente genere Homo era uscito dall’Africa e arrivato in Georgia, come dimostrano i fossili trovati in loco e battezzati Homo erectus georgicus. Poco meno di un milione di anni dopo, giunse in Europa Homo antecessor: è il nome dato al cranio “italiano” di Ceprano, vicino a Roma, e ai numerosi resti trovati ad Atapuerca (Spagna). Il suo cervello era ormai di 1.000 cm cubici e non è da escludere che praticasse il cannibalismo.

«A quel punto si diversificò in rami secondari, a causa di evoluzioni geografiche», chiarisce Manzi. «Uno di questi rami, l’uomo eretto, fu l’ominide caratteristico dell’Asia, con un cervello che arrivava a 1.300 cm cubici. Homo heidelbergensis, quello dell’Europa, aveva un cervello di 1.600 cm cubici». Da lui, circa 200 mila anni fa è disceso l’uomo di Neanderthal. Nello stesso periodo, in Africa, da Homo ergaster emerse Homo sapiens. Una datazione confermata dagli studi genetici condotti sia sul Dna mitocondriale (che si eredita solo per via materna) sia su quello del cromosoma Y (che si tramanda solo da maschio a maschio), grazie ai quali è stato possibile ricostruire discendenze, parentele e migrazioni.

Alcuni paleontologi ritengono che alla base del filone che portò da una parte al sapiens e dall’altra al Neanderthal vi fosse Homo antecessor, altri, invece, Homo heidelbergensis. Inoltre, Homo sapiens uscì dall’Africa e dilagò in Asia, Medio Oriente e in Europa. Ci furono addirittura alcuni incroci con l’uomo di Neanderthal, prima che questa specie – come pure Homo erectus, che a Giava era riuscito a sopravvivere fino a 30 mila anni fa – si estinguesse, lasciando Homo sapiens come il solo rappresentante sopravvissuto del suo genere.

24 novembre 2015
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