Non mancano le critiche, ma il Test di Rorschach, ideato nel 1921, è ancora usato come strumento di indagine negli studi sulla personalità: composto da 10 macchie presentate in successione, di ciascuna, alla persona a cui viene somministrato il test viene chiesto "che cosa potrebbe essere?", "che cosa vedi?". Lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach (1884-1922) ideò e consolidò il test delle macchie d'inchiostro sulla base delle sue osservazioni sui pazienti di un ospedale psichiatrico, che, affetti dalle stesse patologie, guardando le macchie davano risposte molto simili.
È un test proiettivo: le macchie non rappresentano nulla, per cui ogni persona le interpreta rivelando qualcosa di sé. Funziona? In parte sì, secondo Gregory Meyer (Università di Toledo), che ha esaminato 1.292 studi sperimentali sul test. Lo psicologo ha riscontrato come validi alcuni parametri di interpretazione del test, come quello per cui se una persona vede immagini che richiamano un'idea di passività o impotenza ("un uccello che non riesce a volare") ha tratti di personalità definita dipendente e indecisa. Non sarebbe fondato, invece, il parametro per cui chi si concentra sui dettagli della macchia avrebbe una personalità di tipo ossessivo.
Le critiche. Le tecniche proiettive, come appunto il test delle macchie di Rorschach, sono spesso messe in discussione: in particolare, è contestata l'accuratezza che viene attribuita a questi strumenti. Sul test di Rorschach il dibattito è sempre aperto, e i critici sottolineano che i dati sperimentali non giustificano un uso così diffuso. Per esempio, sono state messe sotto accusa l'influenza dell'esaminatore, ma anche alcune interpretazioni (come il collegamento tra risposte legate a colore ed emotività) o l'incapacità di identificare precisamente alcuni disturbi.