Il caso di Yara Gambirasio, uccisa nel 2010, e il processo a Massimo Bossetti, ritenuto il colpevole dell'omicidio in base all'analisi del DNA, solleva molti interrogativi scientifici. Le indagini hanno coinvolto alcuni corpi di polizia e molti laboratori, perché gli indizi erano molti e complessi da esaminare.
Per esempio nei polmoni di Yara fu trovata della calce, probabilmente proveniente da un cantiere. La parte più complessa delle indagini ha però riguardato la genetica, perché sui vestiti di Yara furono trovate tracce di sangue umano, non suo. Questi residui sono stati la base della lunga indagine che ha portato all’arresto di Massimo Bossetti.
Per chiarire com’è proceduta l’indagine, abbiamo chiesto aiuto a Emiliano Giardina, responsabile del Laboratorio di genetica forense dell’Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" e consulente tecnico per la genetica forense dei Tribunali di Roma e di Urbino e collaboratore della Polizia Scientifica della Direzione Centrale Anticrimine.
È stato lui a imprimere una svolta alle indagini che per due anni abbondanti hanno girato a vuoto. Giardina, infatti, si è accorto di un dettaglio: il dna del killer aveva molti punti di contatto con quello di due fratelli residenti a Gorno. Non solo, l’esperto si era sbilanciato, ipotizzando che l’assassino e i due avessero in comune il padre. Solo che Giuseppe Guerinoni, il padre dei due fratelli, morto nel 1998, non aveva altri figli. «Allora in giro c’è un figlio illegittimo di Guerinoni, è lui che va cercato» proponeva al tempo Giardina tra lo stupore (e anche il sarcasmo) generale.
MA Come ci si è arrivati? Il patrimonio genetico di ogni persona è unico e personale, e tutta la storia delle indagini è stata una specie di convergenza tra quello che si sapeva (il DNA trovato sulla ragazza) e quello che si pensava dovesse essere, cioè il DNA del presunto assassino.
L’idea di base dei genetisti della polizia è stata quella di fare un’analisi a tappeto di tutta la popolazione che avrebbe potuto, in un modo o nell’altro, essere coinvolta nel delitto; nelle intenzioni della polizia e dei carabinieri, i parenti dell’assassino avrebbero dovuto prima o poi “cedere” il Dna durante le indagini, e questo avrebbe permesso di arrivare al proprietario del sangue su Yara.
Indagini a tappeto. Per confrontare il campione trovato sulla ragazza, polizia e carabinieri hanno dapprima centrato le indagini sulle zone frequentate da Yara, come la palestra dove si stava recando la sera del 26 novembre 2010, e quelle dove è stato trovato il cadavere, per esempio la discoteca di Chignolo d’Isola, che si trova lì vicino. Ma anche il cantiere dove erano state rinvenute alcune tracce forse di Yara dai cosiddetti “cani molecolari” (cani addestrati a rintracciare particolari combinazioni di molecole). Sono state così trovate somiglianze tra il DNA di un frequentatore della discoteca e il sangue di riferimento.
Da questo si è poi risalito a tre fratelli (il cui DNA era ancora più simile a quello di riferimento) e poi su su, fino al loro padre, Giuseppe Guerinoni, attraverso il DNA trovato dietro il bollo della patente e poi a quello delle ossa esumate - Guerinoni è morto nel 1999.
Il passo definitivo è stato quello di trovare la madre, che sembra essere, anche se la donna ora nega, una signora ora 67enne di Terno d’Isola; avrebbe avuto da Guerinoni un figlio illegittimo, uno di una coppia di gemelli.
Il collegamento tra la signora e Bossetti è stato infine fatto con il cosiddetto DNA mitocondriale (vedi sotto), dopo una serie di indagini più classiche. Trovati padre e madre dell’assassino, è stato possibile, con altre indagini a tappeto, risalire al loro figlio, che sarebbe, così dice il DNA, Massimo Giuseppe Bossetti.
Ecco alcuni particolari delle complesse analisi genetiche utilizzate durante le indagini.
1) Su cosa si basa la “prova del DNA”? Il DNA estratto, volontariamente o a loro insaputa, dalle persone coinvolte non può essere sequenziato, cioè letto nella sua completezza. Il patrimonio genetico di ogni persona è infatti diviso in 46 filamenti, i cromosomi, che tutti insieme sono costituiti da almeno 3 miliardi di coppie di “basi”, come sono chiamate le singole molecole che costituiscono la lunga catena del DNA. Ogni sequenza intera avrebbe bisogno di giorni e giorni di lavoro per essere completata. È quindi necessario usare solo una parte molto precisa e facilmente “leggibile” dell’intero genoma, che possa poi essere confrontata con le stesse sequenze sui cromosomi di altre persone.
Sarebbe come mettere a confronto, di due fotografie segnaletiche divise in mille pezzi, solo le retine o il lobo degli orecchi, parti molto variabili del corpo.
2) Che parte del DNA si può usare per identificare una persona? Si parte dal presupposto che il 99,9% del DNA di un individuo è identico a quello di tutti gli altri della specie. Inoltre, la maggior parte dei geni funzionanti sono piuttosto costanti nella loro struttura, altrimenti non riuscirebbero a svolgere il loro “lavoro”; ci sono però regioni che non hanno nessun significato biologico e sono estremamente variabili da persona a persona, senza che questo comprometta il funzionamento del corpo. Rappresentano di fatto l’evoluzione tecnologica delle impronte digitali.
Sono queste le regioni del DNA usate; i più comuni per i test di paternità sono i cosiddetti str, cioè short tandem repeat, cioè “ripetizioni in tandem brevi”. Queste ripetizioni sono lunghe normalmente 2-6 coppie di basi, ripetute un numero variabile di volte. Per esempio una sequenza di 16 basi potrebbe essere "gatagatagatagata", cioè 4 copie del frammento “gata”.
Il numero di copie ripetute può variare, e proprio su questo numero di variazioni si basano le analisi che differenziano i vari DNA. L’analisi è semplice perché per distinguere una persona dall’altra basta "pesare" queste sequenze ripetute, non è necessario leggerle una per una, come accade per altri tipi di sequenze. Un’analisi di questo tipo è anche molto breve, e ha bisogno di circa due ore. Per questo è stato possibile usare il DNA delle 18-19.000 persone coinvolte nell’indagine.
4) Come viene considerata la prova del DNA, dal punto di vista giuridico? La Corte di Cassazione penale, a partire dal 2004, ha deciso che «Gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario». Cioè significa che le “impronte digitali genetiche” sono equiparate a quelle reali, che ci sono sulla punta delle dita.
5) Cosa significano i numeri spesso citati, quelli che parlano di una “probabilità del 99,99999987%” di colpevolezza? Non hanno niente a che fare con la vera innocenza e colpevolezza (quella sarà accertata in sede di processo) ma con un altro dato: quello cioè “la possibilità di una corrispondenza casuale: tale dato si riferisce, infatti, alla probabilità che un individuo preso a caso presenti la stessa corrispondenza di DNA riscontrata tra il DNA dell’imputato e quello rinvenuto sulla scena del delitto” (il passo è tratto da Tra il certo e l’impossibile, di Francesca Poggi, Diritto e questioni pubbliche, 2010).
Una probabilità su 10.000 indica il fatto che ci sia una persona su 10.000 che ha quella corrispondenza. Il numero citato sopra è un altro dato ancora, e si riferisce alla compatibilità del DNA del presunto colpevole con il padre, Giuseppe Guerinoni. La probabilità di una corrispondenza di un individuo preso a caso tra il sangue di Bossetti e quello trovato su Yara è un 99 seguito da moltissimi 9 dopo la virgola, cioè di miliardi e miliardi.