Nell'era 2.0 quando si parla di cinguettio (tweet, in inglese), il pensiero viaggia subito a Twitter e alla comunicazione ultrarapida in 140 caratteri. Ma tra il canto melodico degli uccelli e il vociare umano esisterebbe una correlazione che va al di là di Internet e dei social network. Ci sono alcune prove che dimostrerebbero come gli uomini e gli uccelli abbiano in comune geni e strutture cerebrali associabili con l'uso della parola. Per questo motivo, alcuni scienziati ritengono che lo studio dei volatili possa chiarire in che modo si è evoluto il linguaggio umano, come spiega Angela Saini in un documentario su BBC Radio 4.
Parola di Darwin (e non solo). Nel suo capolavoro L'origine delle specie, pietra miliare della biologia moderna, il naturalista Charles Darwin scrive: «I suoni emessi dagli uccelli offrono, per parecchi aspetti, l'analogia più vicina al linguaggio, perché tutti gli individui della stessa specie emettono grida istintive che esprimono le loro emozioni; e tutte le specie che cantano esercitano la loro facoltà istintivamente».
Nel 2013, il linguista Shigeru Miyagawa del MIT rafforza in concetto espresso da Darwin quasi 155 anni prima, formulando una teoria secondo la quale il linguaggio umano si sarebbe sviluppato dal canto degli uccelli. Insieme ad alcuni colleghi, Miyagawa suggerisce che il nostro linguaggio si fonda su due componenti distinte, entrambe presenti in forma semplice in animali meno evoluti.
Lessico ed espressione. Il primo sistema è quello "lessicale" (Tipo L), che riguarda il contenuto delle singole frasi. Nell'uomo si traduce nell'utilizzo delle parole, ma è osservabile, ad esempio, anche nei primati. La seconda componente, definita "espressiva" (Tipo E), si traduce nella capacità di strutturare un discorso conferendo ad esso una funzione, in modo analogo a come gli uccelli usano un determinato canto per marcare il territorio o per attirare un partner.
Senti chi canta. Nel suo documento, Miyagawa porta alcuni esempi per illustrare il Tipo E. Gli esemplari di diamante mandarino (noto anche col nome di diamantino) apprendono le canzoni che cinguetteranno per il resto della vita in gioventù, direttamente dai propri padri. I canti non contengono "parole": sono solo melodie dotate di un certo ritmo.
Anche gli uccelli rinomati per la loro musicalità, spiega Miyagawa, non sono in grado di esprimere concetti di senso compiuto. Il bagaglio canoro di un usignolo può contare fino a 200 canzoni «tuttavia lo scopo di questi suoni rimane piuttosto limitato, riducendosi di solito all'accoppiamento o alla delimitazione territorio. Nessun canto possiede un significato particolare».
Due in uno. "L'ipotesi integrativa" di Miyagawa prospetta che l'uomo rappresenti l'unico caso in natura in cui il sistema lessicale e quello espressivo lavorino a braccetto: il primo si destreggia tra circa 60 mila vocaboli, il secondo permette di assemblarli in schemi funzionali.
Il linguista del MIT teorizza che i nostri antenati abbiano prima sviluppato la capacità di "cantare" in modo simile gli uccelli, e poi abbiano imparato a includere le parole nei loro vocalizzi.
Birdman. La maggior parte dei linguisti non è però della stessa idea e sostiene che l'uomo primitivo avrebbe prima sviluppato un sistema lessicale elementare, simile alle scimmie, che emettono versi isolati per indicare la presenza di un serpente o un leopardo, e poi avrebbe progressivamente imparato a unire due o più parole per elaborare periodi più complessi, fino ad arrivare agli enunciati verbosi che costruiamo oggi.
Per Miyagawa questa idea di "protolinguaggio" implica un salto evolutivo troppo grande: per creare una frase, infatti, non è sufficiente mettere una vocabolo in fila all'altro, poiché il significato di ogni termine cambia a seconda del contesto in cui lo inseriamo. L'ipotesi integrativa, che parte invece dal canto degli uccelli, contribuirebbe a colmare questo inspiegabile scarto introducendo lo stato espressivo.
Così lontano, così vicino. Gli uomini e gli uccelli sono piuttosto distanti all'interno dell'albero evolutivo: l'antenato comune risale a circa 250 milioni di anni fa, prima ancora che i dinosauri dominassero la Terra. A questo, si aggiunge il fatto che il pensiero di Miyagawa non è ancora stato comprovato da prove scientifiche sostanziose. Ecco perché, quando i linguisti cercano di comprendere le origini del linguaggio umano, volgono il loro sguardo ai nostri parenti più stretti, ovvero i primati.
Tuttavia, le analogie non mancano. La più ovvia, segnalata anche da Darwin, riguarda la capacità dei giovani uccelli di sviluppare il proprio repertorio canoro imitando gli esemplari adulti. Ne L'origine della specie, riportando il pensiero di un altro naturalista, Daines Barrington, scrive che i primi tentativi di cantare «si possono paragonare all'imperfetto sforzo di balbettare di un bambino».
Una ricerca del 2009, inoltre, dimostra che alcuni pennuti possono imparare i richiami di alter specie, diventando in pratica "bilingue" o addirittura "trilingue".
Il gene parlante. La tesi integrativa potrebbe trovare un prezioso alleato nella genetica. Il gene FOXP2, scoperto nel 2001, viene definito "gene del linguaggio", in quanto una sua mutazione può portare, tra le altre cose, a disturbi verbali. Una ricerca del 2014 ha dimostrato che, oltre ad esso, uomini e uccelli hanno in comune una cinquantina di geni correlati al linguaggio e all'apprendimento vocale.
Simon Fisher, attuale direttore dell'Istituto Max Planck di psicolinguistica a Nimega, nei Paesi Bassi, ha contribuito a suo tempo all'individuazione di FOXP2. Alla BBC racconta che questa parentela genica non è sufficiente a spiegare l'ipotesi di Miyagawa.
Il gene è infatti presente in molti altri animali, perché risulta inoltre connesso alla sfera motoria. Il fatto che nell'uomo sia anche associato ai processi vocali dipende da un cambiamento evolutivo su cui è difficile fare congetture, ma che non riguarda, a suo parere, tutte le specie.
Non solo parole. Celebri linguisti come Noam Chomsky ritengono che la definizione di linguaggio vada assai oltre il parlato, come si evince, ad esempio, dalla maturazione della lingua dei segni. Chomsky, in particolare, sostiene che il tratto distintivo del linguaggio umano si identifica nella grammatica, che è universale in quanto anche i bambini molto piccoli ne colgono istintivamente le regole nonostante non afferrino il significato di ogni parola.
Stando alle teorie più accreditate, la svolta chiave nel cervello umano è avvenuta tra i 70mila e i 100mila anni fa, aprendo la strada all'evoluzione del linguaggio come lo conosciamo oggi. Il periodo coincide con la nascita del pensiero astratto, nonché al fiorire dell'arte rupestre e della produzione di gioielli, tutti processi di natura strettamente umana.
Meglio delle scimmie. I fattori che soffiano contro l'ipotesi integrativa fanno pensare che le analogie tra uomini e uccelli siano dovute a una casuale convergenza evolutiva e che quella di Miyagawa sia forse destinata a rimanere soltanto una teoria molto suggestiva. Tuttavia, questo non impedisce agli scienziati di rimanere sbalorditi di fronte alle sorprendenti capacità di alcune specie di volatili. Una ricerca del 2014 ha evidenziato che il diamante mandarino è in grado di discriminare i cambi di intonazione della voce umana, rivelando così abilità superiori a molti primati strettamente imparentati con noi. «Per gli uomini, l'intonazione è molto importante e può cambiare il senso di una frase», sottolinea la co-autrice dello studio Michelle Spierings, «Non ci saremmo mai aspettati che gli uccelli fossero tanto sensibili a dei minuscoli cambiamenti della nostra voce».