Scienze

Ibernazione umana: è possibile?

Sorpresa! L'ibernazione umana è teoricamente possibile, e diversi studi lo confermano: è una promessa per la medicina e per affrontare lunghi viaggi spaziali.

L'ibernazione umana, ossia la capacità di abbassare la temperatura corporea di un essere umano fino a uno stato di totale quiescenza, oltre che al centro delle trame della fantascienza è oggetto di studi serissimi da diversi anni. Padroneggiare la quiescenza sarebbe utile in diversi ambiti, per esempio per la sospensione dei processi vitali di vittime di gravi ferite durante il trasporto in ospedale, mentre agenzie spaziali come la NASA (che in effetti conduce studi su questo tema) vedrebbero una possibilità per lunghi viaggi spaziali, dentro e fuori dal Sistema Solare: «Non c'è alcuna ragione che faccia pensare che l'ibernazione sia per l'uomo una frontiera proibita», sottolinea l'ingegnere aerospaziale John Bradford in un'intervista a The Atlantic.

Ibernati si risparmia. Un equipaggio di astronauti ibernati durante un viaggio lungo mesi (per esempio Terra-Marte) consumerebbe meno acqua, cibo ed energia rispetto a un equipaggio sveglio, a tutto vantaggio dello spazio risparmiato per via del carico ridotto e anche per la riduzione dello stress che un simile viaggio potrebbe provocare.

Lo scoiattolo dell'Artico (Spermophilus Parryii) può abbassare la propria temperatura corporea fino a -3° e quasi azzerare il consumo energetico.

Capacità naturali. L'ibernazione degli animali a sangue caldo in natura è piuttosto comune: orsi, diverse specie di roditori, pipistrelli (e persino alcuni uccelli) sono in grado di abbassare progressivamente la propria temperatura corporea fino a raggiungere uno stato in cui le funzioni vitali sono ridotte al minimo e l'organismo non ha praticamente bisogno di cibo. L'essenza dell'ibernazione pare dunque essere il controllo della temperatura corporea: alcuni scoiattoli dell'artico riescono ad abbassarla fino a zero o quasi, riducendo il consumo di energia del 99%, e lo stesso fa il lemure nano.

L'uomo non ha questa capacità: la sua "temperatura di esercizio" è di 37 °C e scostamenti di pochi gradi verso l'alto o verso il basso possono significare la morte. È invece possibile indurre artificialmente la cosiddetta ipotermia terapeutica (o ipotermia protettiva), una pratica usata per esempio in sala operatoria per quegli interventi in cui il cuore deve essere fermato per molto tempo, o in medicina d'urgenza per ridurre i danni agli organi di pazienti colpiti da arresto cardiaco. Per esempio, un team di medici dell'Università del Maryland ha messo a punto un protocollo (ancora sperimentale) per vittime di traumi o ferite che hanno provocato un arresto cardiaco, che vengono rapidamente messe in stato di ipotermia: questo processo permette di estendere fino a due ore la vita utile del cervello anche in caso di assenza di flusso sanguigno, così da dare ai medici il tempo per intervenire.

Bilancio energetico. Per applicazioni meno drammatiche, uno dei problemi da risolvere è dato dal fatto che il nostro organismo non è in grado di immagazzinare riserve di cibo: anche un corpo in stato di ibernazione ha infatti bisogno di essere alimentato, seppure per una piccola frazione rispetto alle condizioni normali. C'è poi la questione del tremore: in ipotermia tendiamo a tremare, per liberare calore, ma è un comportamento che consuma moltissima energia. In chirurgia questa risposta dell'organismo al freddo viene controllata con specifici farmaci, che non possono però essere somministrati per tempi lunghi.

Alcune ricerche si stanno concentrando su una specifica sostanza chimica, caratteristica degli scoiattoli dell'Artico, che consente loro di abbassare la temperatura corporea in maniera "sicura": somministrata ai ratti, animali che non si ibernano, pare aver dato buoni risultati, tant'è che si valuta la possibilità di avviare trial più complessi - siamo però ancora lontani dai test sugli esseri umani.

Non è solo questione di farmaci: quanto tempo può resistere il corpo umano in uno stato di ipotermia indotta? I ratti dopo due settimane iniziano a sviluppare infezioni letali all'intestino (gli orsi, per evitare questi problemi, alternano periodi di temperatura più bassa ad altri più "tiepidi"). E restano anche tutti da esplorare gli aspetti psicologici di un sonnellino lungo settimane o mesi e che comunque non avrebbe gli stessi effetti ristoratori della classica, bella dormita.

15 febbraio 2020 Rebecca Mantovani
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