La quantità di detriti galleggianti nei mari di tutto il mondo cresce in modo esponenziale: è ancora difficile seguire la navigazione dei detriti, e questo è uno dei motivi che non ci permettono di valutare fino in fondo il loro impatto sull'ambiente.
Tra i nuovi strumenti messi a punto dopo lo tsunami del Giappone del 2011, il modello sviluppato da Nikolai Maximento e Jan Hafner (ricercatori dell'International Pacific Research Center) ha permesso di seguire più da vicino gli effetti delle correnti marine e del vento sui materiali galleggianti che hanno invaso l'Oceano Pacifico.

I due ricercatori hanno tracciato quali sarebbero potuti essere i percorsi dei detriti facendo riferimento al modo con il quale alcune boe collegate ai satelliti si muovono alla deriva e sui dati dei venti raccolti nel tempo.
A tre anni dal maremoto i modelli sono stati profondamente modificati grazie a quanto si è potuto ricavare dal reale movimento dei detriti, che comprendevano di tutto, dai frigoriferi di casa a intere barche, come testimoniato anche dai marinai della nave scuola russa Pallada.
Dopo un viaggio di molti mesi, i primi detriti sono arrivati sulle coste americane: Oregon, Washington, Alaska, isole Hawaii... Il materiale che per primo si è arenato su una spiaggia è arrivato proprio alle Hawaii, circa un anno e mezzo dopo lo tsunami: boe, piccole barche da pesca, suppellettili di casa. Circa sei mesi dopo iniziò ad arrivare il materiale legnoso, meno "galleggiante": analisi eseguite da botanici hanno permesso di stabilire che gran parte del materiale in legno era tratto da un cipresso endemico del Giappone, e in qualche caso si riuscì anche a stabilire quando il legno era stato tagliato.