Come è inizata questa magnifica avventura?
Lee Berger voleva studiare velocemente i fossili rinvenuti nel 2013, e rendere pubblici i risultati. E ha scelto, oltre a 20 studiosi che avevano già collaborato con lui, 30 giovani ricercatori da tutto il mondo. Io ho risposto al bando, pubblicato su Internet. Siamo stati più di un mese in albergo, da cui ogni mattina andavamo alla University of the Witwatersrand: lì entravamo in un laboratorio speciale, a cui si accede da una porta blindata, una sorta di caveau dove sono conservati quasi tutti i fossili trovati in Sudafrica e molti calchi. Qui i 1.550 fossili erano divisi in tavoli dedicati a cranio, mano eccetera. Io ero responsabile di quello degli arti inferiori (piede escluso). Avevamo competenze diverse, potevamo fare confronti con i reperti nel laboratorio e accedere ai dati delle ricerche di tutti.
L'Homo naledi sembra una sorta di mosaico anatomico: che cosa hanno rivelato le analisi?
Abbiamo fatto misurazioni, TAC per scoprire la struttura delle ossa, scansioni in 3D: gli scanner laser erano in funzione di continuo! Ha tratti primitivi, come il cranio piccolo e le dita dalle falangi curve, segno che si arrampicava sugli alberi. E altri tratti più moderni: gambe e piedi da bipede, ma anche mani (nonostante le dita arcuate) in grado di manipolare strumenti. In mani e piedi è sorprendentemente simile a noi.
Quindi l'Homo naledi era un nostro parente?
Sicuramente era un nostro parente: fa parte del nostro genere, Homo. Potremmo dire che era un "prozio", un parente su una linea laterale. Pensiamo infatti che, per le caratteristiche ancora ancestrali, sia molto vicino all'antenato comune da cui è derivata tutta la famiglia degli Homo. Non possiamo però dire se sia un bisnonno, ossia una specie da cui discendiamo in linea diretta. Forse quello vero non lo individueremo mai con certezza! Ormai abbiamo superato la concezione di un'evoluzione lineare verso l'Homo sapiens: il nostro albero genealogico ha rami laterali che non hanno portato a nulla.
Quanto potrebbe essere "vecchio" l'Homo naledi? E quindi, dove lo collocheremmo nella famiglia umana?
Non c'erano elementi - altri fossili, rocce databili - che permettessero già di stabilire l'età, quindi su questo stiamo ancora lavorando. L'ipotesi che facciamo, dalla morfologia, è che il Naledi sia antico: ha le caratteristiche che ci aspetteremmo in un anello di congiunzione tra l'australopiteco e l'Homo. Se fosse più vecchio di 2 milioni di anni potrebbe essere il primo Homo trovato.
O almeno quello con uno scheletro ben definito - ci sono frammenti di Homo di 2,3-2,4 milioni di anni fa. Comunque, sarebbe vicino alla base dell'evoluzione del nostro genere. Se risultasse più recente, di 1 milione o 500 mila anni fa, sarebbe comunque rivoluzionario. Vorrebbe dire che mentre sul pianeta si muovevano già specie di Homo con caratteri moderni, ne resisteva uno con tratti ancestrali: un relitto, un "cugino" lontano.
Come sono finiti nella grotta i molti individui che avete trovato?
Abbiamo escluso le strade "standard", come predatori o acqua - e non lo sappiamo. Ma abbiamo fatto un'ipotesi: una deposizione di cadaveri. Non parliamo di riti funebri. Forse si trattò solo di liberarsi dei corpi gettati nella fessura da cui si accede alla grotta. Con la decomposizione, le ossa scivolavano sul fondo. E la deposizione dei morti già alla base del nostro genere Homo avrebbe implicazioni enormi.
Damiano Marchi è docente di Antropologia al Dipartimento di biologia dell'Università di Pisa. È stato l'unico italiano nel team che ha studiato l'Homo naledi, guidato da Lee Berger, della University of the Witwatersrand (Johannesburg, Sudafrica). Laureato in scienze biologiche all'Università di Pisa nel 1998, dal 2004 al 2010 ha insegnato alla Duke University (USA) e nel 2011-2012 è stato alla University of the Witwatersrand. Tra le sue aree di ricerca, l'analisi delle caratteristiche dello scheletro, per studiare locomozione e manipolazione negli ominidi.