Scienze

Come il cervello reimpara a vedere

Uno studio di ricercatori del Cnr e dell'Università di Pisa mostra come ci si può riabituare a vedere con l'impianto di una protesi, anche dopo anni di cecità.

Se gli occhi vedono di nuovo, il cervello può riadattarsi a vedere? Non è una domanda banale: le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello, quando è privato a lungo di uno dei sensi, si adatta a superare l’handicap riorganizzandosi, magari destinando ad altre funzioni le parti prima dedicate all’elaborazione dei segnali provenienti dal senso interrotto.

Si sa poco di come questo avvenga, e di che cosa succeda quando, magari dopo molto tempo, si recupera la capacità perduta grazie a terapie o protesi.

Seconda vista. Un gruppo di ricercatori dell’Università e del Cnr di Pisa ha cercato di colmare questa lacuna nel caso della vista, studiando alcuni pazienti cui è stata impiantata una protesi dopo anni di cecità pressoché totale. Si tratta di una tecnologia chiamata Second Sight, costituita da una telecamera che, montata sopra gli occhiali, trasmette immagini del mondo esterno, elaborate e convertite in segnali elettrici, a un microchip impiantato sulla retina del paziente, che a sua volta stimola il nervo ottico.

Il paziente non recupera la vista in senso completo, ma torna a vedere ombre e contorni, recuperando un certo grado di autonomia. Finora il sistema è stato impiantato su non più di 300 pazienti nel mondo. In Italia l’ha importata il chirurgo oftalmico Stanislao Rizzo, dell’Università di Firenze, che ha collaborato allo studio.

Il cuore della protesi: il microchip impiantato nella retina. © Second Sight

prima e dopo. I sette pazienti su cui è stato effettuato lo studio (in inglese su PLOS Biology) erano affetti da retinite pigmentosa, una malattia ereditaria che porta gradualmente alla perdita della vista. La loro capacità visiva è stata misurata prima e dopo l’impianto della protesi e, soprattutto, sono stati studiati i cambiamenti nel loro cervello una volta che con la protesi hanno ricominciato a vedere.

Prima dell’intervento e poi a distanza di circa sei mesi dall’impianto e ancora dopo, sono stati fatti ai pazienti dei test monitorati con risonanza magnetica, per studiare l’attivazione delle aree cerebrali: venivano mostrati 15 secondi di buio oppure una serie di flash. Mentre prima dell’operazione l’area del cervello destinata a processare gli stimoli visivi era del tutto spenta, dopo l’impianto si attivava notevolmente, perfino con la protesi disattivata.

Plasticità. «È come se le aree del cervello deputate alla visione si fossero svegliate», commenta Marco Cicchini, ricercatore del Cnr di Pisa e uno degli autori dello studio: «prima dell’operazione il cervello, in un certo senso, ‘non sapeva’ vedere. Dopo è diventato in grado di farlo.»

Non solo: l’attivazione delle aree cerebrali è stata maggiore nei pazienti con il passare del tempo dall’intervento, e in funzione di quanta pratica avevano fatto con la protesi, sottoponendosi a esercizi di riconoscimento delle forme sullo schermo di un computer.

Le aree spente, che in mancanza degli stimoli visivi erano probabilmente in tutto o in parte rese disponibili per altre funzioni, sono state “riconquistate” dalla vista.

«I dati ottenuti da questo gruppo di pazienti dimostrano che questo processo è in parte reversibile e che si può fare in modo che le aree che una volta erano visive tornino a svolgere la loro funzione originaria, sebbene il nuovo segnale visivo sia molto diverso e molto distorto rispetto a quello originale», spiega Elisa Castaldi, ricercatrice del Cnr e primo autore dello studio.

Lezioni per il futuro. Ci sono anche altre lezioni importanti che emergono da questa ricerca. «Questi dati dimostrano che c’è una grande plasticità nel cervello, non solo durante l’infanzia, ma anche in età adulta», afferma Maria Concetta Morrone, dell’Università di Pisa, coordinatrice dello studio.

Al contrario di quello che un non addetto ai lavori potrebbe immaginare, non si può tornare a vedere, a sentire, o a muovere un arto come per magia, da un giorno all’altro, «perché il cervello si riorganizzi c’è bisogno di tempo e di esercizio», aggiunge Cicchini.

Su come il cervello lo faccia, e su come favorire questo processo, si sa ancora poco. È per questo che, anche per migliorare le protesi del futuro, è fondamentale capire e interpretare i fenomeni di plasticità del cervello.

26 ottobre 2016 Chiara Palmerini
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