Lo scorso 6 maggio l’atleta kenyano Eliud Kipchoge ha corso una maratona (42 km e 195 metri) sulla pista di Monza in condizioni speciali, chiudendo con un tempo strabiliante: 2h 00’ 24”, oltre due minuti e mezzo più veloce rispetto all’attuale record del mondo di 2h 02 ’57” stabilito in gara nel 2014 a Berlino da un altro kenyano, Dennis Kimetto.
Ma nonostante il tempo, Kipchoge non ha raggiunto l’obiettivo previsto per quel giorno: riuscire a chiudere la prova sotto le due ore. Per soli 24 secondi.
Obiettivo 1h 59' 59". Chiariamo subito un aspetto che potrebbe far storcere il naso ai puristi dello sport: la corsa di Kipchoge sul circuito di Monza non era un tentativo di battere il record della maratona; non era un evento sportivo; si trattava di un esperimento scientifico.
L’evento era infatti la fase finale di #breaking2, un progetto organizzato da Nike per verificare la possibilità di abbattere il muro dei 120 minuti nella prova regina della corsa su strada.
A #Breaking2 si affianca Sub2, un consorzio di università, enti sportivi, centri di ricerca e aziende private che hanno l'obiettivo di individuare, e allenare con metodologie scientifiche, un atleta in grado di correre una maratona in meno di due ore e senza fare ricorso a sostanze dopanti entro i prossimi 5 anni.
I promotori di Sub2, tra i quali diversi enti antidoping nazionali affiliati alla WADA, l'Agenzia Mondiale Antidoping, vogliono infatti dimostrare come nello sport sia possibile raggiungere traguardi ambiziosi senza utilizzare scorciatoie chimiche.
Un risultato storico, senza record. Il tempo ottenuto da Kipchoge, per quanto straordinario, non potrà però essere omologato a causa delle condizioni in cui si è svolta la prova, molto diverse rispetto a quelle delle maratone che vengono corse normalmente su strada.
Il test si è infatti svolto in una situazione ideala per temperatura, umidità e tipologia di tracciato, senza altri concorrenti che gareggiavano per il primo posto e con l’aiuto delle cosiddette “lepri”, cioè altri atleti che si sono alternati davanti al kenyano, ciascuno per un breve tratto, per fendere l’aria, dargli il ritmo e “tirarlo” al traguardo.
Anche se Kipchoge ha di fatto fallito, la sua prestazione resta comunque straordinaria e solleva più di una domanda: qual è il limite? Esiste un tempo al di sotto del quale non è scientificamente possibile correre una maratona? E come si costruisce un super atleta come Kipchoge?
Gli ingredienti del successo. Nel 1991 Michael Joyner, anestesista ed esperto di fisiologia alla Mayo Clinic di Rochester (Minnesota, USA), pubblicò il primo studio nel quale si esploravano i limiti del fisico umano nella maratona.
Joyner si concentrò sui tre fattori fisici individuati già negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso come determinanti nella prestazione di un atleta sulla lunga distanza: il VO2Max, la soglia del lattato e l’economia della corsa.
Quanto dipendono da elementi esogeni come l’allenamento e l’alimentazione e quanto dal patrimonio genetico? E fino a che punto è possibile modificarli senza ricorrere a pratiche illecite come il doping?
Per capirlo, proviamo ad analizzare tutti e tre questi parametri.
VO2Max. Il VO2Max, o massima potenza aerobica, indica la massima quantità di ossigeno che il sangue può fornire ai muscoli in una data unità di tempo.
E dato che l’ossigenazione muscolare è un fattore fondamentale nella corsa, il VO2Max può essere inteso come la potenza massima che può essere erogata dal “motore” del runner.
È migliorabile? Questo valore può essere in parte migliorato con l’allenamento, ma è di fatto determinato dalla genetica. Gli atleti più forti durante una maratona arrivano all’80% del VO2Max, ma miglioramenti sostanziali senza l’aiuto di sostanze dopanti (per esempio il famigerato EPO che aumenta il numero di globuli rossi nel sangue) non sono possibili.
La soglia del lattato. In condizioni normali i muscoli del nostro organismo ricavano l’energia necessaria al loro funzionamento da uno zucchero, il glucosio, che in presenza di ossigeno viene trasformato in energia, acqua e CO2. Ma quando la richiesta energetica aumenta, l’ossigeno fornito dalla respirazione non è più sufficiente a soddisfare le richieste metaboliche. Il nostro organismo riesce a supplire a questa richiesta in modo diverso, producendo però un materiale di scarto: l'acido lattico.
L’acido lattico, di per sé, non è un problema perché entra nel flusso sanguigno e arriva al fegato dove viene riconvertito in glucosio. Ma quando la produzione di acido lattico supera la capacità dell’organismo di smaltirlo iniziano i problemi: l’acido lattico si accumula nei muscoli dove provoca senso di fatica e dolore.
La soglia del lattato è dunque il livello di sforzo che l’organismo riesce a sostenere - per un runner è la velocità - senza che l’acido lattico intossichi i muscoli.
È migliorabile? Questo parametro può essere migliorato con allenamenti specifici finalizzati ad aumentare l’efficienza dell’organismo nello smaltimento dell’acido lattico, per esempio abituandolo a carichi di lavoro crescenti.
Quanto costa correre. L’economia della corsa indica l’efficienza dell’atleta nel convertire l’ossigeno e il combustibile (per esempio i carboidrati) in energia utile allo sforzo. È correlata al VO2Max e alla frequenza cardiaca massima sostenibile. In altre parole, la corsa di un atleta è economica quando, a parità di carico di lavoro, consuma meno ossigeno.
È migliorabile? In parte sì, sia con l’allenamento sia, marginalmente, intervenendo sul gesto tecnico e sulla meccanica della corsa.
Il runner perfetto. Joyner identificò i valori massimi teoricamente raggiungibili per ciascuno dei tre fattori e su questi costruì il modello del runner ideale: numeri alla mano, il medico dimostrò che questo maratoneta, se esistesse, potrebbe portare a termine i 42,195 km in 1h 57’ 58”, quasi due minuti in meno rispetto all’obiettivo di Sub2.
È ciò che ha fatto il team di Nike: medici, scienziati e allenatori hanno lavorato insieme agli atleti per migliorare ogni aspetto che influisce su velocità e resistenza: piani di alimentazione e idratazione personalizzati, sessioni di allenamento calibrate in base alla risposta di ogni singolo fisico, micro correzioni della meccanica della corsa così da renderla più efficiente.
Le scarpe. E poi ci sono i materiali: possono avere davvero un’influenza determinante sul tempo di maratona? Secondo alcuni studi sì.
È un dato di fatto che la corsa sia, in generale, un movimento altamente inefficiente: in media solo il 45% della potenza generata dalle gambe viene utilizzata per spingere l’atleta in avanti. Il resto viene dissipato nell’impatto al suolo. Uno dei modi per ridurre questo spreco consiste nel restituire alle gambe una parte dell’energia prodotta.
Ecco perché Nike, Adidas e altre aziende del settore sportivo stanno lavorando a scarpe ultra reattive, le cui tomaie contengono materiali in grado di rendere al runner parte dell’energia che viene solitamente dissipata. Queste calzature utilizzano inserti in materiali estremamente elastici come il carbonio o solette realizzate con speciali polimeri sintetici.
Funzionano davvero? Difficile dirlo con certezza: la #breaking2 è fallita, anche se solo per una manciata di secondi, mentre a fine gennaio l’etiope Kenenisa Bekele, che correva la maratona di Dubai con un prototipo di super scarpe Nike, è caduto e si è ritirato prima dell’arrivo.
Wouter Hoogkamer, ricercatore presso il Dipartimento di Fisiologia Integrata all’Università del Colorado, ha condotto alcuni test di laboratorio dai quali è emerso che una scarpa più pesante dell’1% diminuisce dell’1% la velocità di un atleta sul tapis roulant, almeno su brevi distanze. Secondo Hookgamer questo vantaggio potrebbe ridursi a circa la metà in una prova su strada su lunga distanza.
Il percorso. Tra le variabili che possono incidere sulla prestazione dei runner ci sono anche due altri aspetti: la tipologia del percorso e la resistenza all'aria.
Nelle maratone che si disputano normalmente nelle nostre città ci sono spesso saliscendi, tratti di pavè o terreno sconnesso e curve strette: tutti elementi che costringono i corridori a rallentare. Ecco perché Nike ha scelto di utilizzare l’ovale dell’autodromo di Monza per il proprio test.
Se avesse scelto un circuito posto sotto il livello del mare sarebbe stato ancora meglio: all'aumentare dell'altitudine infatti, la pressione atmosferica si riduce e questo fa sì che ad ogni respiro entri nei nostri polmoni una minor quantità di ossigeno (ecco perchè correre in quota è più allenante che correre in pianura).
E poi c'è la questione della resistenza all'aria. Come avviene nel ciclismo, un gregario o una "lepre" che corre a un ritmo sotto le due ore taglia l'aria, consentendo a chi segue in scia di fare meno fatica. Secondo Ross Tucker, un ricercatori di Scienza dello Sport all'Università di Cape Town in Sud Africa, il vantaggio in questi casi può essere del 1-2%.
Il ritratto del campione. Nel 2011, alla luce dei progressi tecnologici e dei miglioramenti nei risultati ottenuti con le nuove metodologie di allenamento, Joyner ha rivisto il proprio lavoro concludendo che sarà possibile correre una maratona sotto le due ore tra il 2025 e il 2030.
E nello stesso paper il medico, utilizzando dati statistici sui migliori piazzamenti in gara, traccia anche l’identikit dell’atleta che conquisterà questo primato: con tutta probabilità sarà kenyano o etiope, piuttosto minuto (170 ± 6 cm di altezza per 56 ± 5 kg di peso) e da piccolo avrà vissuto a lungo in alta quota facendo molta attività fisica intensa.
Tutti questi fattori contribuiranno a rendere la sua corsa particolarmente economica ed efficiente e lo catapulteranno nella storia dello sport.