Un tempo ritenuto "un'esclusiva" dei soliti noti, come mantidi religiose o vedove nere, e limitato per lo più a condizioni di forte stress o mancanza di nutrimento, il cannibalismo ha negli ultimi anni cambiato volto. Oggi si sa che nel regno animale è praticato da centinaia, forse migliaia di specie, e che ha moltissime funzioni, spesso vantaggiose per l'intera specie. Ma se quello animale, in termini biologici, non è sempre un male, più difficile è comprendere le ragioni di quello tra uomini. Seguiteci in questo viaggio scientifico in una delle usanze più disturbanti osservate in natura.
Nel mondo animale, il cannibalismo segue regole precise. Gli animali immaturi sono più predati di quelli adulti. Le femmine lo praticano più dei maschi, e gli adulti di molte specie non riconoscono uova e larve come membri "di famiglia": per loro si tratta semplicemente di cibo. Aumenta se le forme di nutrimento alternativo scarseggiano, ed è direttamente legato al grado di sovraffollamento all'interno di una popolazione. Queste leggi generali furono identificate negli anni '90 per gli invertebrati, e poi estese ai vertebrati. Per molluschi, insetti e aracnidi è quasi la norma: nella foto, una madre ragno della specie Amaurobius ferox si lascia divorare viva dai suoi piccoli, in un estremo sacrificio per nutrirli: i nuovi nati sono troppi e troppo grossi perché la madre possa provvedere a loro diversamente.
Per i pesci è l'assenza di cannibalismo la vera eccezione. Dato il numero sproporzionato di uova prodotte, il loro elevato livello nutrizionale e le dimensioni dei genitori, milioni di volte più grandi rispetto ad esse, la nidiata costituisce per questi animali una fonte di cibo facile e immediatamente disponibile.
È frequente tra fratelli. Per gli uccelli come aironi e avvoltoi, il cannibalismo è spesso una strategia di sopravvivenza che implica sanguinarie lotte fratricide. È la "strategia della scialuppa": se le risorse per salvarsi sono limitate, solo il più forte sopravvive. È più frequente quando la madre deposita uova asincrone, separate di qualche giorno l'una dall'altra. Il fratello più vecchio e robusto approfitta della sua taglia per soffiare cibo all'altro, e se i genitori non possono sfamare entrambi, il pulcino più grande si nutre di quello piccolo.
Non riguarda solo i parenti. Quelli descritti finora sono esempi di endocannibalismo (il cibarsi di membri del proprio stesso gruppo o famiglia). Ma il mondo animale pullula anche di esempi di esocannibalismo, quando cioè le "attenzioni" sono rivolte a esemplari esterni alla propria cerchia familiare. I leoni mangiano i cuccioli dei maschi rivali in segno di potere, dopo aver vinto una lotta, ma anche per porre fine all'investimento materno delle leonesse per la prole nemica.
Le femmine non entreranno infatti in calore finché hanno cuccioli, ma diventano immediatamente recettive se li perdono.
Fu Colombo a coniare il termine "cannibale". Passando al cannibalismo umano, fu l'esploratore a rendere celebre il nome dei Canibal, una tribù dei Caraibi, fino a farlo diventare sinonimo di antropofagi. Lo fece di ritorno da uno dei suoi viaggi nel Nuovo Mondo, per indicare i costumi selvaggi degli abitanti di quelle terre, gettando così le basi teoriche per giustificarne il massacro da parte dei conquistadores.
Non conobbe distinzioni geografiche, né epoche storiche. Ma mangiare i propri simili è stato un tempo comune anche in Europa. Sono infatti in aumento le segnalazioni di resti di uomini preistorici fatti a pezzi, tagliuzzati, scarnificati, e di cui fu estratto il midollo osseo per mano di altri uomini. Anche i Neanderthal, che pure seppellivano i loro morti con veri e propri riti funebri, asportavano occasionalmente le carni dalle ossa dei morti per consumarne alcune parti. Lo smembramento dei cadaveri poteva essere una procedura particolare, legata a rituali simbolici. Analoghe testimonianze sono state riportate per siti archeologici con ossa di Homo erectus.
Perché mangiare un altro uomo? Nel caso di endocannibalismo, quando cioè ci si nutriva delle ossa, o delle ceneri, dei parenti, lo scopo era impedire che le loro "virtù" andassero disperse, e acquisirne la forza. Nel nutrirsi degli estranei ci sarebbero state invece motivazioni economiche e "dietetiche": meglio mangiare i prigionieri, anziché morire di stenti.
Con il passaggio da economie ristrette di piccole bande o villaggi, a sistemi statali basati sull'agricoltura, fortunatamente, si ebbe anche la possibilità di produrre maggiori eccedenze di cibo. Il fabbisogno proteico poteva quindi venir soddisfatto da altri alimenti e, soprattutto, conveniva far lavorare lo schiavo per produrre il surplus da vendere, anziché ucciderlo e restare senza forza lavoro. C'è anche il risvolto psicologico: la pulsione a "mangiare l'altro" rimanda all'inglobarlo per possederlo (con riferimento al sesso).
Camuffato da sacrificio. Un'eccezione a questa logica fu forse costituita dagli Aztechi che, pur avendo un apparato statale molto sofisticato, praticavano tuttavia il cannibalismo di massa (si stima che sacrificassero dai 15 mila ai 250 mila prigionieri l'anno). La loro sarebbe stata una necessità alimentare: la fauna dell’attuale Messico era troppo limitata e di piccole dimensioni per fornire proteine animali a una popolazione sempre in aumento e che periodicamente subiva crisi alimentari dovute ai cattivi raccolti di mais. Gli Aztechi non ebbero successo nei tentativi di addomesticare animali di grossa taglia, e non possedevano né ruminanti né suini.
Per fronteggiare questa situazione avrebbero istituzionalizzato, con una religione che prevedeva continui sacrifici umani, il cannibalismo.
Fu spesso soltanto una leggenda. Molte volte nel corso della storia, il riferimento al cannibalismo è stato usato per screditare i nemici, e per giustificare un loro trattamento inumano. Lo fecero i conquistadores con gli Aztechi: nel Codex florentinus, il frate spagnolo Bernardino De Sahagún sosteneva che distruggere gli Aztechi fosse il giusto castigo di Dio inflitto a quel popolo assetato di sangue umano. Nel 1511 i governanti spagnoli stabilirono che gli indigeni potevano essere fatti schiavi in quanto privi di anima. Alla stessa stregua, i cristiani accusarono di cannibalismo gli ebrei, gli inglesi lo fecero con gli irlandesi, mentre tedeschi e francesi si calunniarono a vicenda (per non parlare della credenza secondo la quale i comunisti mangiassero i bambini).
Ha segnato la fine di alcune famose civiltà. Proprio perché ultima risorsa disponibile. Accadde per esempio con le popolazioni che abitarono l'Isola di Pasqua, a 2500 km dal Sudamerica. I primi polinesiani che vi si stabilirono avevano a disposizione frutta, legna da ardere, palme per costruire canoe. E un mare molto pescoso. Ma non calcolarono che l’isola, persa nell’oceano, aveva risorse limitate. Pian piano gli alberi diminuirono, finché l’ultima palma venne abbattuta. Senza alberi per costruire canoe la pesca finì. Gli uccelli si estinsero e le uniche proteine animali erano costituite da qualche ratto, insetti, anfibi... e uomini. Insomma il cannibalismo sarebbe stata l’ultima risorsa prima della scomparsa di quella civiltà.
Fino al '700 era anche chiamato "usanza del mare". Con riferimento al cannibalismo "obbligato" praticato dai naufraghi per sopravvivere. Tra questi casi, quello che fece più scalpore fu, nel 1816, quello dell'inabissamento della fregata francese Méduse, che costrinse 139 persone su una zattera per 13 giorni. Ne furono recuperate vive solo 15, sopravvissute mangiando i cadaveri dei compagni di viaggio. L'episodio è ricordato nel celebre dipinto La zattera della Medusa di Théodore Géricault.
Gli umani: come si cucinavano? Gli antichi bollivano la carne umana gettando nell’acqua pietre roventi. I cannibali della Nuova Guinea preferivano invece la cottura al forno. I Tupinambà del Brasile avevano diverse alternative: affumicare, arrostire o bollire, secondo i "tagli" di carne. I Mayoruma (Brasile, nella foto) preparavano il cervello col peperoncino e i Tupinambà usavano erbe aromatiche. Gli Aztechi preferivano lo stufato, insaporito con pepe, pomodori e gigli tritati.
Un piatto da re. La millenaria storia della Cina sarebbe costellata di esempi di parti del corpo umane usate come ingredienti di cucina.
Lungi dall'essere risorse per i tempi grami, i piatti a base di "uomo" erano - secondo diverse testimonianze storiche - una delizia esotica preparata per le gerarchie reali o l'alta società. Ma di che sa la carne umana? Secondo l’antropologo statunitense Tobias Schneebaum sarebbe dolciastra. Per altri saprebbe di... pollo.
Non è privo di effetti collaterali.. Sapore a parte, nutrirsi dei propri simili comporta anche pericolosi svantaggi. E non ci riferiamo ai risvolti morali. Nel 1955 il medico estone Vincent Zigas scoprì una misteriosa malattia infettiva in Nuova Guinea, dove l’antropofagia era ancora praticata a scopo rituale. Molti indigeni si ammalavano di kuru (“brivido” nella lingua locale) con sintomi quali perdita dell’equilibrio, difficoltà nei movimenti, tremori. Presto Zigas si accorse che la malattia era dovuta all’usanza di cibarsi del cervello dei cadaveri: a essere contagiati erano soprattutto donne e bambini, mentre gli uomini, che dei morti mangiavano solo i muscoli, erano risparmiati. L’infezione (simile al "morbo della mucca pazza") è dovuta a un prione (una proteina) che, resistendo all’acidità gastrica, viene trasferito da una persona all’altra per via alimentare. Nel 1957 il rito fu vietato e la malattia scomparve.
Gli ultimi cannibali. Gli ultimi cannibali del Pianeta si chiamano Korowai e vivono in Nuova Guinea. Non sono più di 2500 e si dividono in gruppi di 40-50 individui. Dormono su capanne costruite a 20 metri da terra sugli alberi, per stare più al sicuro, dato che la loro esistenza è segnata da continue faide. La loro dieta è molto povera di carne e di altre proteine animali. Secondo la Depsos, la locale agenzia di investigazione sugli indigeni, dei corpi dei nemici i Korowai mangiano quasi tutto (o mangiavano: questa popolazione vive ancora con pochissimi contatti esterni, e non si sa quanto ancora esteso sia questo rito). In ogni caso, il loro scopo dichiarato è rituale: ristabilire l’armonia e acquisire l’energia vitale del Mana, la grande forza magica che riempie tutte le cose.