Se sul limite della durata della vita umana ancora si dibatte - con alcuni che lo collocano attorno ai 115 anni, e altri che ritengono possa essere spostato ancora più in là - è sulla qualità della vecchiaia, che la scienza medica può ancora esprimere tutto il proprio potenziale.
Due percorsi separati? Secondo uno studio pubblicato su Nature Communications, tuttavia, longevità e healthspan (il periodo di tempo in cui si è in salute ottimale) potrebbero essere regolati da meccanismi molecolari diversi. La sorprendente scoperta emerge dallo studio di un organismo modello per gli studi in biologia, il verme nematode Caenorhabditis elegans.
Sani come in gioventù. L'healthspan è definito da una serie di parametri come la durata della mobilità o della resistenza immunitaria, indicatori più difficilmente misurabili, rispetto all'età anagrafica. Ecco perché la durata degli anni vissuti in salute è più difficilmente misurabile, rispetto a quella complessiva della vita. Eppure, è proprio sull'healthspan, cioè su una qualità di vita duratura, che dal punto di vista medico ha più senso intervenire.
Arjumand Ghazi, Professore di biologia cellulare e dello sviluppo alla Pittsburgh School of Medicine e all'University of Pittsburgh Medical Center, scomoda il mito greco di Eos e Titone per spiegare la differenza: la dea dell'alba innamorata di questo principe di sovrumana bellezza chiese e ottenne da Zeus la sua immortalità. Ma dimenticò di chiedere l'eterna giovinezza, ritrovandosi a trascorrere la vita con un uomo sempre vecchio e privo di forze.
Scoperta a sorpresa. Nello studio, Ghazi e colleghi si sono concentrati su una proteina chiamata TCER-1, che nei C. elegans promuove la longevità ed è connessa alla fertilità. In molti animali, i geni che favoriscono la longevità sono anche legati a una maggiore resistenza a fattori di stress come le infezioni. Sopprimendo la TCER-1, si pensava, i vermi sarebbero diventati più vulnerabili. Invece, a sorpresa, è avvenuto l'esatto contrario.
I vermi senza TCER-1 sono parsi assai più resistenti alle infezioni batteriche, alle alte temperature e ai danni da radiazioni; hanno mostrato una migliore mobilità durante l'invecchiamento e un minore accumulo di proteine tossiche (il meccanismo associato, nell'uomo, all'insorgere di alcune malattie neurodegenerative). In pratica, hanno mostrato un più esteso healthspan, nonostante la soppressione di una proteina associata alla longevità.


Gestione delle energie. A differenza di ogni altro gene per la longevità studiato finora, TCER-1 sembra agire, infatti, abbassando la resistenza immunitaria. Ma lo fa soltanto finché gli animali sono giovani e in grado di deporre uova: durante l'età riproduttiva, assicura che il verme diffonda i suoi geni concentrando tutte le risorse disponibili sulla riproduzione, a costo di sottrarle alla gestione dei fattori di stress.
È presto per ipotizzare che qualcosa del genere accada anche nell'uomo. Ma se così fosse, con uno sforzo di immaginazione, cambierebbe la nostra percezione dei meccanismi legati all'invecchiamento: «Sarebbe interessante capire come il corpo distribuisce le risorse» spiega Ghazi. «E se, per esempio, un giorno le donne potessero prendere una pillola una volta deciso che non vogliono più avere figli, per migliorare il loro healthspan e ricollocare le risorse usate per la riproduzione verso una migliore resistenza allo stress?».