Salute

Varianti di coronavirus: come si formano?

È il termine del momento: "varianti". Ma cosa sono e come si sviluppano? Perché alcune prevalgono? Come mai sembrano "emergere tutte assieme"? Facciamo il punto.

Le mutazioni, piccoli e casuali errori genetici che si verificano quando le cellule fanno copie di se stesse, sono una caratteristica chiave di ogni vivente e forniscono materiale grezzo per i meccanismi di adattamento. Le mutazioni creano nelle popolazioni una variazione naturale "di base" dalla quale, mediante selezione naturale, escono amplificati i tratti che permettono a un organismo di adattarsi meglio all'ambiente.

Anche i virus, pur non essendo tecnicamente viventi, mutano ed evolvono mano a mano che infettano le cellule dell'ospite per costringerle a produrre tante copie del proprio codice genetico. In questo processo di continua replicazione possono verificarsi delle imprecisioni, e nel materiale trascritto possono esserci piccoli errori rispetto all'originale, simili a errori di battitura. Insiemi ricorrenti di mutazioni in una popolazione di virus determinano le cosiddette varianti.

niente di eccezionale. La maggior parte delle mutazioni non ha un impatto significativo sulle caratteristiche dei virus. Quelle dannose per il loro funzionamento vengono eliminate da una sorta di correttore di bozze virale, che riduce il loro numero. Altre ancora sono neutre e dopo essere state proposte, svaniscono senza lasciare traccia, o diversamente si accumulano nelle generazioni successive, permettendo a chi si occupa di analisi filogenetiche di ricostruire, seguendo "i refusi", la storia del virus e della sua diffusione.

Errori provvidenziali. Alcune mutazioni invece conferiscono ai virus un vantaggio evolutivo rendendoli, per esempio, capaci di compiere un salto di specie, più contagiosi o più capaci di sfuggire agli anticorpi. Versioni di uno stesso virus accomunate da una piccola porzione di genoma mutato (non sufficiente a determinare un cambiamento significativo nell'attività del virus) prendono il nome di varianti.

Negli ultimi mesi ha fatto notizia l'esistenza di molte varianti di SARS-CoV-2, e in particolare di quella inglese, quella sudafricana e quella brasiliana, per citarle impropriamente con i nomi dei luoghi in cui sono state scoperte. La variante inglese B.1.1.7 è contraddistinta da una maggiore contagiosità, mentre quella sudafricana B.1.351 e quella brasiliana P.1 condividono alcune mutazioni che le renderebbero più resistenti agli anticorpi.

Evoluzione in atto. Fuori dalle capsule di Petri, stiamo assistendo a un esperimento evolutivo in tempo reale, su scala globale? «Una cosa simile ma meno veloce - un processo di adattamento ed evoluzione virale» spiega Massimo Ciccozzi, epidemiologo dell'Università Campus biomedico di Roma e tra i maggiori esperti italiani di filogenetica (il lavoro di confronto delle varie versioni del virus, che permette di ricostruire la sua storia).

«I virus mutano per adattarsi all'ambiente che parassitano. Poi per pressione selettiva, la mutazione che dà al virus un vantaggio evolutivo si fissa nel genoma virale e così si classifica la variante».

«Nel nostro caso per ben già due volte abbiamo assistito a questo evento: la prima volta a fine gennaio, quando il ceppo originale di Wuhan e stato sostituito dal ceppo DG614, che dava al virus una maggiore contagiosità. Adesso con tre varianti dove la mutazione N501Y rende il virus ancora più contagioso e la mutazione E484K rende meno efficaci gli anticorpi contro la proteina Spike e leggermente inefficace il vaccino. Probabilmente se la circolazione del virus continua con questa velocità il nuovo ceppo sarà la variante inglese con la mutazione N501Y».

Tutte assieme. Perché le nuove varianti sembrano d'un tratto emerse "all'unisono"? «Le varianti sono emerse tutte insieme perché ora le cerchiamo - chiarisce Ciccozzi - e il fatto che siano apparse in regioni differenti e senza un probabile progenitore comune porta all'idea dell'omoplasia (la stessa modificazione genetica comparsa più volte in situazioni indipendenti), e alla convergenza evolutiva che avverrà con il tempo».

In pratica in più occasioni non correlate e in diversi contesti geografici il virus ha evoluto mutazioni simili che favoriscono gli stessi tratti (per esempio una maggiore contagiosità): la prova che le mutazioni che si sono confermate sono, per il virus, vantaggiose.

«Le mutazioni avvengono per pressione selettiva ambientale: ci sono fattori, come la risposta del nostro sistema immunitario, che costringono il virus a cambiare per continuare ad avere un vantaggio su di noi. Alla fine si arriva di solito alla convergenza evolutiva e quindi all'adattamento del virus all'ospite».

Il SARS-CoV-2 muta molto, o molto poco? Poco, se lo si paragona ad altri virus a RNA come quelli dell'HIV o dell'influenza, rispetto ai quali è assai più stabile: la sua variabilità genetica è da 10 a 100 volte inferiore a quella del virus che causa l'AIDS. Molto se confrontato ai più estesi e stabili virus a DNA, rispetto ai quali ha un sistema di "correzione bozze" (polimerasi) più approssimativo: ma è proprio questa minore efficienza a conferire maggiore adattabilità. © Shutterstock

Non c'è una finalità. Le mutazioni non sono da considerarsi "risposte" del virus alla biologia umana ma piuttosto un repertorio di proposte continuamente dispiegate, complice la vastissima diffusione del virus. «Non c'è direzione - spiega Ciccozzi - i virus semplicemente privilegiano il parassitismo dell'ospite» perché possono sopravvivere soltanto all'interno degli esseri viventi. Hanno quindi tutto l'interesse a contagiare il maggior numero di persone possibile.

«Le mutazioni sono casuali ed è poi la pressione selettiva che spinge al fissare o no la mutazione, se è importante per il virus e se gli dà un vantaggio evolutivo come una maggiore contagiosità».

Per esempio tra le tante proposte della variante inglese ce ne è stata una che includeva la mutazione E484K tipica della variante sudafricana (più capace di eludere gli anticorpi): e poiché questa mutazione è favorevole si teme possa diffondersi in fretta nel Regno Unito.

Abbiamo un certo potere. In tutto questo anche noi ospiti involontari possiamo fare attivamente la differenza: «col vaccino e mantenendo mascherine e distanza anche dopo vaccinati, il virus avrà poco da infettare e circolerà di meno. Farà quindi meno mutazioni e diventerà endemico», cioè rimarrà tra noi provocando sintomi lievi, che non costituiranno più una minaccia per la salute pubblica.

Con il passare del tempo e la diffusione della vaccinazione potremmo costruirci contro questo patogeno che mai avevamo incontrato una specie di scudo immunitario di base, come quello che formiamo contro i coronavirus stagionali: magari imperfetto, non sempre efficace contro le varianti o da rinforzare con richiami vaccinali, ma comunque capace se non di impedire il contagio del tutto, di evitare i sintomi gravi. Non è lo scenario di un'eradicazione definitiva ma di una convivenza a lungo termine, tutto sommato pacifica.

27 febbraio 2021 Elisabetta Intini
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