La notizia di un terzo candidato vaccino potenzialmente molto efficace contro la covid è stata salutata in tutto il mondo con sollievo. Ma la sperimentazione del vaccino di Oxford e AstraZeneca ha messo in luce una caratteristica apparentemente strana, che sta suscitando parecchie domande: esso sembra garantire una maggiore protezione nel dosaggio inferiore tra i due testati finora.
Nei volontari che hanno ricevuto prima una dose dimezzata e poi una seconda dose intera a un mese di distanza è stata riscontrata un'efficacia del 90%; in chi aveva ricevuto due dosi intere, l'efficacia è stata del 62%. Perché questa differenza? Come mai al dosaggio maggiore non corrisponde una protezione maggiore?
Un problema di dati. Una risposta precisa ancora non c'è: si dovrà cercarla in laboratorio e nei dati sulla sperimentazione che devono ancora essere diffusi e studiati da scienziati non coinvolti nello studio (peer-review). Si ragiona per ora nel campo delle ipotesi, e una di queste potrebbe essere di natura statistica. Il campione di volontari su cui si basa l'analisi diffusa potrebbe non essere abbastanza esteso per fotografare correttamente la differenza tra i dosaggi testati.
Come spiegato su Nature, il dosaggio "mezza fiala-fiala intera" è stato somministrato a 2.741 participanti, mentre quello con due dosi intere è stato dato a 8.895 persone. Nel comunicato stampa che è stato pubblicato, non è specificato a quale gruppo appartenessero i 30 vaccinati che hanno comunque contratto la covid. La differenza riscontrata nell'efficacia potrebbe assottigliarsi, una volta che saranno stati considerati più casi di infezione.
Strategie difensive. Le altre possibili spiegazioni riguardano le complesse interazioni tra quel vaccino e il sistema immunitario. Per Katie Ewer, immunologa dell'Oxford's Jenner Institute che sta lavorando al vaccino, è possibile che un primo incontro con una dose più bassa sia più efficace nello stimolare un gruppo specifico di cellule immunitarie, i linfociti T, che riconoscono gli antigeni (cioè le proteine) estranei all'organismo e producono segnali molecolari d'allarme o partecipano direttamente all'uccisione della cellula infetta.
Troppa confidenza. Un'altra affascinante ipotesi ha a che fare con il vettore virale - ossia l'adenovirus reso innocuo e incapace di infettare - usato per introdurre nell'organismo il codice genetico della proteina Spike del nuovo coronavirus. Il vaccino di Oxford stimola una risposta immunitaria non solamente contro la Spike ma anche, in parte, contro il vettore utilizzato per farla entrare.
È dunque possibile che, dopo una prima dose intera di vaccino, nel secondo richiamo il sistema immunitario non faccia più caso al vettore virale, che a quel punto conosce bene, e attenui anche la risposta alla parte saliente di vaccino, quella che comprende la proteina Spike.
Somministrare invece una prima dose più bassa solleciterebbe il sistema immunitario abbastanza da produrre linfociti T, ma non abbastanza per innescare subito una produzione di anticorpi che possano contrastare i benefici del richiamo. Questa - lo ripetiamo - è per ora soltanto un'ipotesi.
Esperimenti su animali con vaccini a base di adenovirus modificati sembrano supportare la maggiore efficacia dell'approccio con diversi dosaggi, che avrebbe anche il vantaggio di risparmiare sulla quantità di vaccino disponibile, che basterebbe così a una fetta più ampia di popolazione.