Per neutralizzare alcune delle nuove e diffuse varianti di coronavirus potrebbe servire una quantità di anticorpi maggiore di quella che proteggeva dalle passate infezioni. Pertanto gli anticorpi dei guariti, quelli sollecitati dai vaccini e i monoclonali potrebbero risultare meno capaci di proteggere dalle infezioni causate dalle nuove versioni del SARS-CoV-2.
A lanciare l'allarme è uno studio (pubblicato su Nature Medicine) che dopo aver testato l'efficacia di anticorpi di diversa origine contro le tre principali varianti di coronavirus (inglese, sudafricana e brasiliana) ha fatto intendere che potrebbe presto essere necessario aggiornare i vaccini di prima generazione.
Non abbastanza. «C'è un'ampia variabilità nella quantità di anticorpi che una persona produce in risposta alla vaccinazione o all'infezione naturale. Ci sono persone che ne producono livelli molto elevati e risulterebbero probabilmente protetti anche dalle nuove varianti», afferma Michael S. Diamond, della Washington University School of Medicine, tra gli autori dello studio, «ma altri, e in particolare penso ad anziani e immuno-compromessi, potrebbero non produrne abbastanza: se il livello di anticorpi necessari per essere protetti si decuplica, come indicano i nostri dati, allora potrebbero non averne abbastanza.»
La preoccupazione degli scienziati è che con la diffusione delle nuove varianti, proprio i più fragili non siano sufficientemente protetti dal contagio.
Un osso duro. Il virus, ormai lo sappiamo, attacca le cellule usando come chiave la proteina spike, il bersaglio principale dei vaccini anti-covid e dei farmaci a base di anticorpi monoclonali. Benché i virus mutino continuamente, soltanto dall'inverno 2020 sono state individuate varianti con diverse mutazioni nei geni che codificano per la proteina spike, teoricamente pericolose perché potrebbero diminuire l'efficacia di vaccini e farmaci che prendono di mira proprio quell'obiettivo.
Le varianti più sorvegliate, e anche quelle studiate nello studio, sono la B.1.1.7 (inglese), B.1.135 (sudafricana) e B.1.1.248 o P.1 (brasiliana), già individuate anche nel nostro Paese: la prima delle tre è ormai prevalente in Italia.
Maggiori quantità. Gli scienziati hanno messo a contatto virus delle tre diverse varianti con anticorpi del sangue di convalescenti da CoViD-19 o di persone che erano state immunizzate con il vaccino di Pfizer. Hanno anche verificato l'efficacia, contro le varianti, degli anticorpi di criceti e scimmie vaccinati con un vaccino sperimentale sviluppato proprio dall'Università di Washington, in forma di spray nasale.
Fortunatamente, per neutralizzare la variante inglese è servita la stessa quantità di anticorpi necessaria per l'originale SARS-CoV-2.
Ma per le varianti brasiliana e sudafricana sono stati necessari anticorpi in quantità decisamente superiore, da 3 volte e mezzo a 10 volte più abbondanti.
La mutazione incriminata. Quando il team ha dispiegato contro le varianti gli anticorpi monoclonali, le repliche sintetiche dei più efficaci anticorpi naturali sviluppate contro il virus originale, ha ottenuto diversi livelli di efficacia, da ampia a... inesistente!
A questo punto gli scienziati hanno cercato di capire quali tra le singole mutazioni genetiche a carico della spike influisse di più sull'efficacia di anticorpi e vaccini: per il momento sembra essere la E484K, presente sia nella variante sudafricana B.1.135 sia nella brasiliana P.1, ma non in quella inglese. Questo potrebbe spiegare perché il vaccino della Johnson & Johnson abbia riportato in Sudafrica percentuali più basse di efficacia rispetto agli USA, dove è più diffusa la variante inglese.
Occhi aperti. Altre componenti del sistema immunitario sono in grado di compensare un'eventuale maggiore resistenza delle nuove varianti agli anticorpi, tuttavia le nuove scoperte fanno capire chiaramente che dovremo monitorare nel tempo l'efficacia degli anticorpi prodotti grazie a vaccini e guarigioni contro le nuove forme di coronavirus in circolazione. Soprattutto se dovessimo osservare un aumento dei casi di reinfezione.