Roma, 21 ago. (AdnKronos Salute) - La Cassazione, a distanza di oltre vent'anni dai fatti, ha riconosciuto il risarcimento danni ai familiari di una donna deceduta in seguito a un carcinoma dell'utero che le era stato diagnosticato tardivamente. La Suprema Corte, accogliendo il ricorso dei familiari della donna di origini siciliane, ha osservato che "l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale assume rilievo causale non solo in relazione alla chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ma anche per la perdita da parte del paziente della chance di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita intesa come possibilità di programmare il proprio essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell'esito".
Sulla base di questi presupposti, la Terza sezione civile ha disposto un nuovo esame del caso davanti alla Corte d'appello di Palermo che dovrà quantificare il giusto risarcimento per i famigliari della donna, dal momento che "l'erroneità della conclusione tratta dalla Corte di merito si è riverberata nel mancato riconoscimento di un ristoro dei danni subiti" dalla donna, con particolare riguardo "alla perdita di chance di sopravvivenza ovvero anche solo alla possibilità di meglio prepararsi alla propria fine vivendo consapevolmente, pur in tale contingenza, il proprio essere persona".
Come ricostruisce la sentenza di piazza Cavour, nel 1992 la donna aveva effettuato per cinque volte controlli clinici in seguito a preoccupanti perdite ematiche, ma soltanto il 23 febbraio del 1993, dopo il ricovero all'Istituto materno infantile, le fu diagnosticato il carcinoma. "Ciò da cui può desumersi con certezza - annota la Suprema Corte - che il carcinoma era già presente all'atto delle visite" effettuate dal ginecologo.