«Era marzo quando tutto è iniziato, per me e per la mia famiglia. Prima ha avuto la febbre mio figlio, per 3 giorni, poi io e mia moglie; a lei è passata dopo poco, a me no. Dopo una decina di giorni con la febbre, sono svenuto e allora mi hanno portato in ospedale. L'ultima cosa che ricordo è l'ambulanza, poi più nulla».
Così comincia il racconto di Mario Galbiati, milanese: ricoverato il 23 marzo, nel pieno della prima ondata del coronavirus, avrebbe passato 68 giorni in terapia intensiva. «Di quei due mesi non ho memoria: ero sempre sedato e immobilizzato, attaccato alla macchina che mi ha tenuto in vita».
SETTE MESI. Mario Galbiati ora riesce a raccontarci la sua esperienza. Parla lentamente, cercando di non affaticarsi: mentre il mondo da settimane sta cercando di contenere la seconda ondata, il suo corpo sta ancora scontando le conseguenze della prima. «Sto seduto, cammino pochissimo e con un deambulatore, ho sempre bisogno dell'aiuto di qualcuno. Sono le conseguenze del lungo allettamento e di quello che ho vissuto: la fisioterapia mi aiuterà a superarle, nel prossimo anno». Mario Galbiati ha compiuto 65 anni il 24 maggio, mentre era in rianimazione.
Dopo gli oltre due mesi in terapia intensiva, ha potuto essere ricoverato in altri reparti: in tutto, ha trascorso in ospedale 210 giorni. Sette mesi di vita: qualcosa che dovrebbe far riflettere chi ancora sembra persuaso che CoViD-19 sia poco più di un raffreddore. «Dopo una ventina di giorni dall'ingresso in ospedale il virus non c'era più, ma la malattia ha scatenato moltissimi problemi: i polmoni non funzionavano, ho avuto problemi cardiaci, mi hanno dovuto fare la dialisi».
LA FAMIGLIA ALL'ESTERNO. Galbiati è stato ricoverato per un lungo periodo in un blocco operatorio "convertito" in terapia intensiva, che l'Ospedale Niguarda di Milano aveva attrezzato per accogliere i pazienti CoViD-19 più gravi. Nicoletta Iannuzzi, sua moglie, ha vissuto tutto dall'esterno, senza nemmeno poterlo vedere. «I medici ci telefonavano una volta al giorno, per dirci qual era la situazione: sapevamo che era tra la vita e la morte», racconta. «Mario è stato uno dei pazienti con la permanenza più lunga, nella rianimazione del Niguarda. I polmoni erano entrambi compromessi, sembrava che uno dei reni non fosse recuperabile (ora per fortuna è tornato a funzionare), ha preso infezioni batteriche di tutti i tipi, frequenti nei pazienti in terapia intensiva, è stato a lungo pronato, steso a pancia in giù per migliorare il contenuto di ossigeno nel sangue… Alla sera condividevo gli aggiornamenti scrivendo ad amici e parenti e questo dava un po' di sollievo alla mia disperazione».
UN BUCO NELLA MEMORIA. Per Galbiati, il periodo passato nella terapia intensiva è invece un buco nella memoria. «Io dormivo, ero incosciente. Ricordo solo una sorta di allucinazioni, una conseguenza del mix di sedativi: per esempio in uno di questi incubi salvavo una bambina e la trasportavo in nave, portandola a casa nostra». La moglie la ricorda come una delle prime cose che le ha detto suo marito. «Anche se all'inizio non riusciva ancora a parlare, perché aveva il tubo del respiratore posizionato in tracheotomia e gli infermieri ci aiutavano a "tradurre" quello che cercava di sussurrare. Mi chiese notizie di quella bambina, e di nostro figlio: pensava che avesse perso la vista e che non camminasse».
Come continua Mario, «quando mi sono "svegliato" ero ancora in terapia intensiva, ma finalmente ho potuto vedere mia moglie e la mia famiglia. Poi sono stato trasferito in altri centri per la riabilitazione e ho iniziato a riprendermi».
CONSEGUENZE. Per gli strascichi della malattia (per esempio, sui polmoni colpiti dall'infezione), delle stesse terapie salvavita, della lunga permanenza a letto con conseguente atrofia dei muscoli, la ripresa di chi è uscito dai reparti CoViD-19 può essere molto lunga. Tra le conseguenze ci possono essere anche problemi cognitivi e di memoria «Ma questo, almeno, a Mario non è successo», nota con sollievo sua moglie. Ma le testimonianze di molti pazienti che ne soffrono arrivano numerose anche in redazione: sono la punta di un iceberg che probabilmente impareremo a conoscere nei prossimi anni.
Proprio per questo dallo scorso giugno è attivo al Niguarda, al presidio Villa Marelli, un ambulatorio dedicato ai pazienti CoViD-19 guariti, ma con alle spalle un lungo percorso in ospedale (con priorità per quelli ricoverati in rianimazione). Obiettivo: assisterli e capire meglio le complicanze a lungo termine. I pazienti – sono circa 650 quelli che partecipano – fanno una serie di esami per prevenire o affrontare problemi polmonari, cardiologici, neurologici o anche psicologici. «Anche Mario partecipa, ha appena fatto la prima visita e tornerà a marzo», dice Nicoletta.
Sempre per seguire i pazienti dopo la dimissione dalla terapia intensiva, facendo ricerca su conseguenze e trattamenti, è stato da poco creato anche il Centro di ricerca Loto (LOng Term Outcome), una collaborazione tra Asst Spedali Civili di Brescia e Fondazione Alessandra Bono. Peraltro, al di là dei ricoveri nelle terapie intensive, gli scienziati stanno studiando in generale la lunga persistenza di sintomi (stanchezza, affanno) nelle persone uscite dalla fase acuta: uno studio condotto da Angelo Carfì, Francesco Landi e Roberto Bernabei, del Policlinico Gemelli di Roma, pubblicato a luglio, ha esaminato i pazienti ricoverati in ospedale e guariti e ha rilevato che l'88% di loro aveva ancora almeno un sintomo dopo due mesi dall'inizio della malattia.
Purtroppo, stiamo scoprendo che questo virus può lasciare il segno a lungo.