Dopo che per anni la terapia genica è stata il simbolo stesso della medicina del futuro, l’idea di curare le malattie usando pezzi di Dna come se fossero medicine è ormai prossima a realizzarsi. Sono infatti sempre più numerosi gli studi che testimoniano che la tecnica funziona e, soprattutto, che può unire la sicurezza all’efficacia. Alcuni farmaci, poi, sono già quasi pronti, e altri ne arriveranno presto. E sebbene all’inizio la terapia genica avesse come obiettivo principalmente le malattie genetiche – quelle determinate da geni difettosi, da sostituire con copie sane – sta oggi rivelando le sue potenzialità anche per patologie molto più comuni, come l’infarto, il morbo di Parkinson, l’Alzheimer e i tumori.
prospettive nuove. È però nel campo delle malattie rare, per le quali spesso non esiste cura, che l’approccio può davvero fare la differenza. La terapia genica ha già dato la prospettiva di una vita normale a bambini condannati a un’esistenza breve e dolorosa, ha restituito la vista ai ciechi, ha permesso ai “bambini bolla”, colpiti dall’Ada-Scid che azzera le difese immunitarie, di uscire dalle loro camere sterili, per affrontare il mondo come se la malattia non ci fosse mai stata.
E tutto questo grazie al contributo fondamentale dei ricercatori italiani, che hanno mantenuto i nervi saldi anche quando, all’inizio degli anni Duemila, in molti hanno invece gettato la spugna, delusi e scoraggiati per i gravissimi effetti collaterali che si erano verificati nel corso di alcune sperimentazioni.
primi successi. La terapia genica consiste nell’introdurre nelle cellule del paziente un gene che permette di curarlo. A questo scopo, il Dna terapeutico è inserito in un vettore (un virus reso innocuo), capace di veicolare il prezioso carico nelle cellule bersaglio (vedi schema qui sotto).
Il primo successo è del 1990, quando gli statunitensi French Anderson e Michael Blaise curarono così una bambina malata di Ada-Scid. Dietro quel risultato c’erano però già allora i dati italiani e, in particolare, quelli di Claudio Bordignon, che aveva trascorso alcuni anni negli Usa, e che poi era tornato a Milano, all’Istituto San Raffaele. La procedura consisteva nel correggere il Dna dei linfociti T della bambina, «ma funzionò parzialmente» racconta Bordignon, che oggi è amministratore delegato della start-up MolMed «perché quando le cellule corrette esaurirono il loro ciclo vitale sparì anche l’effetto terapeutico».
Per rendere permanente il beneficio, il ricercatore pensò quindi di modificare cellule destinate a durare per sempre. Di mirare, cioè, la terapia genica sulle staminali del midollo osseo, quel serbatoio inesauribile dal quale originano tutti gli elementi del sangue.
«Riuscimmo così a guarire i primi due pazienti dall’Ada-Scid e pubblicammo il risultato su Science» ricorda Bordignon. «Era il 1995; la tecnica usata allora è ancora quella che la GlaxoSmithKline sta sviluppando, per portarla a livello commerciale».
le promesse deluse. L’entusiasmo per i primi risultati spinse molti laboratori a intraprendere quella strada, ma dopo pochi anni due gravissimi incidenti cambiarono tutto. Nell’autunno del 1999, il giovane Jessie Gelsinger morì nel corso di una sperimentazione all’Università della Pennsylvania, per una violentissima reazione immunitaria nei confronti del vettore che avrebbe dovuto curarlo. Nel 2002, a Parigi, alcuni bambini si ammalarono di leucemia in seguito a una terapia genica. «La morte di Gelsinger destò scalpore perché la sperimentazione non era stata condotta in modo corretto» ricorda Bordignon. «Quel rischio infatti era già emerso negli studi sugli animali, ma era stato ignorato».
In Francia, invece, fu diverso, come spiega Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (Tiget): «Il vettore usato per veicolare il Dna terapeutico era un retrovirus, ovvero un virus programmato per inserirsi nel Dna delle cellule bersaglio. L’inserzione attivò alcuni geni responsabili della proliferazione tumorale. Fu una doccia fredda, perché si pensava che quel rischio fosse molto remoto. Invece per una sfortunata combinazione di fattori, riguardò il 30% dei pazienti».
un nuovo inizio. I contraccolpi non tardarono ad arrivare: le aziende smisero di investire nel settore, e furono imposte regole nuove e più severe per le sperimentazioni sull’uomo. Molti ricercatori lasciarono il campo, e i pochi che proseguirono si resero conto che era necessario fare un passo indietro e abbandonare per un po’ i test sui pazienti, per mettere a punto metodi più sicuri. «Io lavoravo da qualche anno negli Stati Uniti, dove avevo sviluppato i vettori lentivirali che, derivati dal virus dell’Aids privato delle parti che lo rendono pericoloso, erano più efficienti e sicuri di quelli che avevano originato i problemi. Ero pronto a partire con i test su pazienti, ma mi fermai» ricorda Naldini. «Servivano nuove verifiche sulla sicurezza. Inoltre, negli Usa non c’era più nessuno disposto a finanziarci. Tornai in Italia, e ho potuto proseguire le ricerche grazie ai fondi Telethon. La charity ci ha permesso di fare qui ciò che con l’industria farmaceutica era diventato impossibile».
La strada giusta. Ma la ricerca di vettori più sicuri proseguiva anche su altre strade. E il primo segnale che il nuovo corso stava portando a una svolta è tutto in un video del 2009, in cui un bambino cammina sicuro seguendo un percorso tracciato sul pavimento.
Quel bambino, infatti, era quasi cieco fino a poche settimane prima. La terapia genica che gli ha permesso di sconfiggere l’amaurosi di Leber, una rara malattia genetica che provoca la degenerazione della retina, si era basata sui virus adenoassociati, che, innocui per l’uomo, non si integrano nel Dna delle cellule bersaglio. «Sono vettori sicuri, ma non vanno sempre bene» spiega Alberto Auricchio, ricercatore dell’Istituto Telethon di genetica medica (Tigem) di Napoli, fra gli autori dello studio. «Per esempio, non funzionano su cellule che si dividono, come le staminali, e possono trasportare solo geni piccoli. Per noi però erano perfetti. Lo studio, pubblicato su Lancet, aveva coinvolto 12 pazienti fra gli 8 e i 44 anni, dando buoni risultati soprattutto sui più giovani. Da allora ne abbiamo trattati altri e ora stiamo sperimentando la tecnica anche su altre malattie della retina, fra cui la degenerazione maculare senile».
due passi da gigante. Negli anni seguenti, giunsero anche i primi successi dei vettori lentivirali. Ma il risultato che ha fatto il giro del mondo è del Tiget, ed è stato pubblicato su Science. L’11 luglio 2013, Luigi Naldini e il suo gruppo annunciano di aver curato tre bambini che nell’arco di breve tempo avrebbero altrimenti sviluppato la leucodistrofia metacromatica (una rara malattia genetica neurodegenerativa) e altri tre affetti dalla sindrome di Wiskott-Aldrich, che colpisce le cellule del sangue. In entrambi i casi, i lentivirus con i geni terapeutici sono stati introdotti nelle staminali del midollo osseo. Nei malati di Wiskott-Aldrich, le cellule corrette hanno potuto subito iniziare a sostituire quelle del sangue malate. La sfida era invece più complessa per la leucodistrofia, che colpisce anche i neuroni e altri elementi che non derivano dal midollo. «Le staminali corrette hanno raggiunto il cervello e lì hanno rilasciato la proteina utile, che ha iniziato a svolgere la sua azione. Parte di questa è stata poi “raccolta” dai neuroni circostanti, correggendone il difetto» spiega Naldini.
Per la terapia genica è un salto di qualità, perché significa che, con vettori molto efficienti, è possibile correggere anche cellule difficili da raggiungere, come appunto quelle del cervello. «Stiamo trattando altri bambini» conclude Naldini «e stiamo anche lavorando per rendere i vettori sempre più sicuri. A breve, poi, inizieremo i test sulla beta talassemia e per la mucopolisaccaridosi di tipo 1».
farmaci in vista. Intanto, pochi mesi fa (nel 2014), la GlaxoSmithKline ha deciso di avviare lo sviluppo commerciale delle terapie per la leucodistrofia metacromatica e per la sindrome di Wiskott-Aldrich.
Ma probabilmente, non saranno queste le prime terapie geniche a diventare disponibili per i malati.
Il farmaco Glybera, per curare il deficit della lipoproteina lipasi, è stato approvato dall’autorità regolatoria europea nel 2012 e sarà commercializzato dalla Chiesi di Parma, forse già quest’anno. Mentre alla fine di marzo è iniziata la procedura di valutazione della terapia “TK”, messa a punto dalla MolMed, la start-up di Claudio Bordignon, per le leucemie acute ad alto rischio. «Introduciamo nei linfociti T un gene che ci permette di spegnere sul nascere l’eventuale reazione di rigetto, che può verificarsi dopo un trapianto di midollo, se il donatore, come accade spesso, non è del tutto compatibile» spiega Bordignon. «Oggi questi trapianti hanno una mortalità del 50%, che con la nostra tecnica scende al 14%».
Articolo originariamente pubblicato nel luglio 2014 su Focus. Per questo articolo Margherita Fronte ha ricevuto il premio OMAR 2015 per le malattie rare.