Uno studio britannico ha coinvolto in uno studio genetico oltre 13.500 famiglie con figli affetti da gravi disturbi dello sviluppo, aiutandone 5.500 a dare finalmente un nome alla propria patologia. La ricerca, durata oltre dieci anni e condotta su pazienti provenienti dal Regno Unito e l'Irlanda, ha sequenziato il genoma dei partecipanti per scoprire eventuali cause genetiche delle loro malattie: «Avere una giusta diagnosi è fondamentale per le famiglie in cui un membro è affetto da una malattia rara», sottolinea Caroline Wright, coordinatrice dello studio i cui risultati sono stati pubblicati su The New England Journal of Medicine.
Nuove risposte. Dare un nome a una malattia può fare una notevole differenza nell'avere accesso a cure specifiche e nel miglioramento della qualità della vita. Circa un quarto dei bambini e dei ragazzi coinvolti nello studio hanno modificato il trattamento che stavano seguendo una volta ottenuta una diagnosi precisa. L'analisi genomica ha fornito delle diagnosi precise a 5.500 persone, scovando malattie genetiche che coinvolgevano oltre 800 geni diversi, 60 dei quali associati a disturbi dello sviluppo identificati per la prima volta dallo studio.
Tre quarti delle patologie scoperte erano state causate da mutazioni spontanee non ereditate dai genitori: «L'utilizzo di tecnologie all'avanguardia permette di diagnosticare meglio e in modo più accurato disturbi genetici rari, cosicché i bambini che ne sono affetti possano accedere il prima possibile ai trattamenti necessari, limitando potenzialmente l'impatto della malattia sulle loro vite», sottolinea Will Quince, ministro della salute britannico.
Insieme si è meno soli. Lo studio ha avuto anche il pregio di mettere in contatto tra loro famiglie i cui figli hanno la stessa patologia rara, come quella di Jessica Fisher, il cui figlio Mungo ha ricevuto nel 2015 una diagnosi di sindrome di Turnpenny-Fry, una malattia che causa difficoltà di apprendimento, problemi di crescita e tratti facciali distintivi. Jessica è stata messa in contatto con un'altra famiglia australiana, e ha poi creato un gruppo su Facebook che ora conta 36 membri provenienti da tutto il mondo, tutti con figli con la stessa patologia: «Per anni abbiamo cercato persone che avessero lo stesso problema di Mungo, fino a che lo studio ci ha fatto conoscere questo bambino australiano che avrebbe potuto essere suo fratello», ha raccontato.