Sento le voci, vedo le cose... queste non sono mai buone notizie: le allucinazioni sono quasi sempre sintomo di una patologia, e i meccanismi che le governano non ci sono ancora chiari. Un team dell'Università di Stanford ha compiuto un passo avanti verso la loro comprensione, riuscendo per la prima volta a indurre allucinazioni nel cervello di un gruppo di topi - e scoprendo che basta l'attività di pochi neuroni, a volte meno di 20, per generarne una. E se consideriamo che qualsiasi neurone può accendersi casualmente anche in assenza di stimoli, la domanda che si è posta il team di Karl Deisseroth è: come mai i topi (e anche noi umani) non vivono in un costante stato di allucinazione?
Le barre non esistono. Lo studio si è avvalso di una tecnica nuova, l'optogenetica, sviluppata dallo stesso team: consiste nello stimolare il cervello con fasci di luce infrarossa, che vanno a colpire specifici neuroni a loro volta modificati per essere sensibili a una specifica frequenza luminosa. Il primo passo dell'esperimento è stato insegnare ai topi a reagire a stimoli reali: i ricercatori hanno alternato immagini di barre nere verticali e orizzontali, e allenato i topi ad associare quelle verticali a un premio. Dopodiché hanno identificato quali aree del cervello rispondevano ai diversi stimoli e le hanno modificate così da renderle fotosensibili. Infine hanno illuminato i neuroni corretti, convinto i topi di stare vedendo una barra verticale e osservato gli animali andare in cerca del premio. In altre parole, la reazione del loro cervello all'allucinazione indotta era esattamente la stessa avuta di fronte all'immagine reale.
Basta un poco di luce... Quello che ha davvero sorpreso il team, però, è «quanti pochi neuroni bastano a convincere il topo di stare vedendo qualcosa che non esiste», ha spiegato Deisseroth: «il cervello di un topo è composto da milioni di neuroni, quello umano da miliardi; se ne bastano una manciata per provocare un'allucinazione, come mai non ne abbiamo in continuazione?» La risposta è legata al modo in cui il nostro cervello interpreta gli stimoli visivi (reali o meno) e a quali meccanismi utilizza per separare l'attività reale da quella "spuria"; e scoprirla potrebbe essere di aiuto nello sviluppo di terapie per patologie come la schizofrenia.
Insegnare al cervello a vedere. Non solo: indurre stimoli artificiali potrebbe persino aiutare ipovedenti e non vedenti a recuperare la vista - è già allo studio in California, per esempio, un sistema che raccoglie le immagini da una microcamera impiantata vicino all'occhio e le trasforma in stimoli cerebrali.
Per ora il sistema, sviluppato da Second Sight, ha permesso a un ridotto campione di persone non vedenti di arrivare a distinguere un quadrato bianco su uno schermo nero; l'optogenetica potrebbe aiutare a migliorare la qualità delle informazioni spedite al cervello. Come ha commentato Deisseroth, «siamo solo all'inizio».