Che sia una scelta obbligata o il modo abituale di trascorrere le ore di relax, poco importa: la sedentarietà è deleteria anche per il cervello. Secondo uno studio dell'Università della California meridionale di Los Angeles appena pubblicato sulla rivista medica JAMA, gli adulti con più di 60 anni che trascorrono troppo tempo seduti potrebbero incorrere in un rischio aumentato di sviluppare una qualche forma di demenza.
Già, ma che cosa significa "troppo"? La ricerca parla di 10 ore o più sulla sedia o sul divano. Se vi sembra un'esagerazione, sappiate che per motivi di studio o lavoro è molto facile stare seduti per 8 ore al giorno, e se a queste si sommano quelle trascorse guidando, mangiando o a guardare una serie, il conto è presto fatto... L'americano medio, rimanendo nel Paese dove è stato effettuato lo studio, trascorre seduto in media 9,5 ore al giorno.
Conta il totale. Altro dato importante che emerge dallo studio è che non importa come si raggiunga la soglia limite di 10 ore: se, per intenderci, si tenda a stare seduti per lunghi blocchi di tempo o piuttosto a intervallare le ore sulla sedia con frequenti pause. È infatti il numero complessivo di ore di sedentarietà ad avere un'associazione con un rischio aumentato di demenza, a prescindere da come si totalizzano.
«Molti di noi avranno sentito la comune raccomandazione di interrompere i lunghi periodi seduti alzandosi ogni mezz'ora e rimanendo in piedi o facendo una camminata», dice David Raichlen, tra gli autori del lavoro. «Abbiamo trovato che una volta preso in considerazione il tempo totale di sedentarietà, la lunghezza dei singoli periodi seduti non conta molto», se ci si limita a considerare il parametro studiato nello studio, cioè il rischio di demenza. Mentre potrebbe fare davvero la differenza per altre conseguenze sulla salute.
Seguiti con lo smartwatch. Il team si è concentrato su un campione di circa 50.000 volontari over 60 seguiti nel database medico UK Biobank, che avevano accettato di indossare un accelerometro da polso per 7 giorni 24 ore su 24 e che non avevano ancora ricevuto una diagnosi di demenza. Analizzando con sistemi di machine learning i dati raccolti, i ricercatori hanno ricavato una fotografia precisa delle diverse attività svolte nella giornata, del tempo trascorso da seduti e delle varie interruzioni. Nei sei anni di folllow up dello studio, i dati medici hanno evidenziato 414 diagnosi di demenza.
Tutti in piedi! Dopo aver accertato l'effetto di alcuni fattori demografici (come età, sesso, livello di istruzione, etnia di provenienza, malattie croniche, rischio genetico) e di stile di vita (attività fisica, alimentazione, abitudine a fumo e alcol, salute mentale) che possono influire sulla salute del cervello, gli autori dello studio hanno appurato che in effetti, elevati livelli di sedentarietà facilitano il rischio di demenza.
Tagliare dove si può. «Abbiamo constatato con sorpresa che il rischio demenza inizia ad aumentare rapidamente dopo le 10 ore trascorse seduti ogni giorno, a prescindere da come questo tempo di sedentarietà venga accumulato», spiega Gene Alexander, psicologo e psichiatra dell'Università dell'Arizona, tra gli autori. «Livelli più bassi, fino ad attorno le 10 ore, non sono risultati associati a un rischio più elevato».
«Ciò dovrebbe rassicurare almeno in parte coloro che hanno un lavoro d'ufficio che comporta prolungati periodi di sedentarietà, sempre che poi si limiti il tempo totale speso seduti nel resto della giornata», dice Raichlen. Certi tipi di comportamenti sedentari, come sedersi a guardare la TV a fine giornata, potrebbero in pratica rappresentare la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Sgretolare le placche. La buona notizia è che c'è qualcosa che possiamo fare attivamente per contrastare l'insorgere di demenza. Una ricerca pubblicata su Neuron dimostra infatti che un ormone rilasciato dai muscoli durante l'esercizio fisico e coinvolto nella regolazione del metabolismo dei grassi, l'irisina, aiuta a ridurre le placche di proteina beta amiloide e potrebbe essere impiegato nelle terapie di contrasto alla demenza di tipo Alzheimer.
Questo ormone facilita infatti il rilascio di un enzima da parte delle cellule cerebrali astrociti, che degrada la proteina beta amiloide. Gli scienziati del Massachusetts General Hospital hanno per il momento dimostrato l'effetto positivo diretto dell'irisina su un modello 3D di cellule cerebrali con malattia di Alzheimer.