Nonostante siano passati mesi e ormai tutto il mondo ne conosca bene gli effetti, le origini di SARS-CoV-2, il coronavirus che causa la CoVID-19 (qui i casi in Italia aggiornati in tempo reale), sono ancora incerte. Uno studio pubblicato su Nature offre tuttavia una visione interessante, seconda la quale il coronavirus sarebbe circolato a lungo tra noi in modo innocuo, prima di creare le condizioni che hanno provocato l'attuale pandemia.
«È possibile che un progenitore del SARS-CoV-2 abbia fatto il salto di specie diffondendosi tra gli umani», si legge nello studio. «Durante la trasmissione iniziale non controllata, il virus si sarebbe adattato acquisendo nuove caratteristiche genetiche».
Ipotesi "fuga dal laboratorio": impossibile. Analizzando i dati genomici disponibili per SARS-CoV-2 e altri coronavirus, i ricercatori hanno rilevato che la porzione RBD (receptor-binding domain, letteralmente dominio di legame al recettore) delle spicole si "aggancia" in modo così efficace e perfetto alle cellule umane (infettandole), che deve per forza essere frutto di una selezione naturale. «Le mutazioni nella porzione RBD delle spicole del virus e la sua struttura distintiva fanno escludere l'ipotesi che sia stato creato in laboratorio», spiega l'immunologo Kristian Andersen, uno dei ricercatori che ha partecipato allo studio.
Due ipotesi. Il team di esperti ha formulato due possibili ipotesi sull'origine di SARS-CoV-2. La prima, che la selezione naturale sia avvenuta prima del salto di specie (da animale a umana), sottolineando però che ancora non si ha la certezza su quale sia stato l'ospite originale del virus: «In pipistrelli e pangolini sono stati rilevati genomi simili a quelli di SARS-CoV-2, ma non identici».
La seconda, che la selezione naturale sia avvenuta dopo il salto di specie, quindi mentre il virus circolava già tra gli umani. «Il SARS-CoV-2, evolvendosi nel corso degli anni o forse dei decenni, sarebbe poi riuscito a diffondersi tra gli umani causando la CoViD-19, una malattia grave, a volte mortale», afferma Francis Collins, direttore del National Institute of Health (USA).