Salute

Psicologia: l'esperta, tre tipologie di vittime del terrorismo

Roma, 23 mar. (AdnKronos Salute) - "Non sono vittime del terrorismo solo le persone che lo hanno vissuto direttamente. Lo siamo tutti, a cascata, anche a centinaia di chilometri di distanza. La paura, il terrore, l'ansia, l'angoscia viaggiano su telefonini, pc e tv". A sottolinearlo, all'indomani degli attacchi in Belgio, è Paola Vinciguerra, psicoterapeuta, presidente Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) e autrice di un libro sul terrorismo in uscita a maggio, scritto con Eleonora Iacobelli (Minerva Edizioni).

"Le vittime degli attentati terroristici, generalmente, possono essere divise in tre categorie - spiega l'esperta - Primarie, vale a dire i soggetti interessati direttamente e in modo fisico dall'evento; secondarie, cioè i familiari e le persone vicine ai soggetti direttamente colpiti; e, di riflesso, coloro che sono coinvolti attivamente nei soccorsi e infine gli spettatori mediatici". L'impatto emotivo di ogni trauma "è strettamente soggettivo e dipendente da numerosi fattori, come le caratteristiche della personalità, la capacità di resilienza, la funzionalità emotiva e cognitiva. Il trauma psicologico subito dalle vittime produce una reazione a livello fisico e a livello emotivo molto complessa e non sempre elaborabile normalmente dal nostro cervello - sottolinea Vinciguerra - Quando questo processo automatico si blocca, vengono a formarsi delle reti neuronali disfunzionali che ostacolano un efficiente meccanismo di elaborazione e quindi di benessere psico-fisico".

"Le persone che subiscono direttamente un trauma - prosegue - provano la costante sensazione che possa succedere di nuovo qualcosa di brutto. Questi soggetti rivivono continuamente l'evento traumatico e hanno flash-back, ricordi o pensieri intrusivi. Tutto ciò comporta uno stato di allerta che non si assopisce mai e che implica una grandissima difficoltà nel riprendere la routine quotidiana".

"Le vittime secondarie, invece - continua la psicoterapeuta - pur non essendo state direttamente coinvolte nell'evento traumatico, lo vivono in maniera indiretta attraverso ciò che è accaduto ai propri familiari. Ciò può creare in loro un costante stato di tensione e ansia. Potrebbero sviluppare diverse fobie e riversare questo stato di agitazione permanente anche sulla vittima primaria aumentando ancora di più il suo disagio. Poi ci sono i soccorritori - aggiunge Vinciguerra - Tutti coloro che svolgono un mestiere che potrebbe esporli a un trauma, come per esempio pompieri e forze dell'ordine, vengono spinti a prendere delle precauzioni in genere sufficienti a prevenire il disturbo. La Protezione Civile italiana dà alcune indicazioni rivolte ai soccorritori".

Infine gli spettatori: "Guardare le scene di attacchi ripetutamente passate in tv non fa altro che aumentare il nostro stato di allarme e incidere sulla nostra qualità di vita.

Fa aumentare dentro di noi lo stato di allarme e ci porta a mettere in atto comportamenti di evitamento con l'illusione di proteggerci - dice l'esperta - Un discorso a parte va fatto per i bambini". E' "di fondamentale importanza che gli adulti riescano a trasmettere ai bambini gli strumenti necessari per decodificare, esprimere e fronteggiare le emozioni. Occorre poi tutelarli da immagini e contenuti eccessivamente aggressivi o violenti. I genitori hanno il compito di spiegare e semplificare - afferma la presidente Eurodap - Spesso i programmi televisivi, i telegiornali possono suscitare paura nei ragazzi, ma ancor di più nei bambini".

"Questi, infatti, potrebbero sperimentare un senso di angoscia, ansia e preoccupazione come conseguenza della visione di scene particolarmente crude. In questi casi è consigliabile che i genitori svolgano la funzione di filtro, onde evitare eventuali ripercussioni psicologiche, ricordando che la tutela è un impegno quotidiano. E' necessario che siano sempre presenti per monitorare i programmi tv che guardano i loro figli, per mettersi accanto a loro e parlare. In questo modo ci si offre come guida - conclude - per aiutare i bambini a decodificare le immagini, ma anche le loro stesse emozioni che devono essere comprese e contenute, ma soprattutto condivise".​

23 marzo 2016 ADNKronos
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