L'intelligenza artificiale potrebbe contribuire a identificare le persone con tendenze suicide, per fermarle prima che possano farsi del male come conseguenza di un disagio. Lo affermano in un controverso studio i ricercatori della Carnegie Mellon University (Usa), che hanno messo in campo i più evoluti sistemi di machine learning e riconoscimento delle immagini per prevedere le intenzioni di chi è travolto da un malessere e vuole porre fine alla propria vita.
Il team di Marcel Just ha condotto lo studio su 17 pazienti adulti con comprovate tendenze suicide, iniziando dall'imaging a risonanza magnetica (Magnetic Resonance Imaging, MRI) del cervello dei volontari.
Suicidio annunciato. Durante l'MRI i volontari, otto dei quali avevano già tentato di togliersi la vita, sono stati stimolati con parole negative, come "disperazione" o "solitudine", parole positive (per esempio "spensieratezza") e parole genericamente complesse ("problemi").
I ricercatori hanno quindi isolato le aree del cervello attivate dai vari termini e le hanno confrontate con quelle attivate dalle stesse parole su di un gruppo di controllo neurotipico, cioè senza tendenze suicide.
Le immagini sono state utilizzate per addestrare un sistema di machine learning esperto nell'analisi e nel riconoscimento fotografico: alla fine del processo il computer era in grado di identificare con una precisione del 91% i pazienti che avevano manifestato tendenze autolesionistiche.
In un secondo test lo stesso sistema, addestrato solo con le immagini dei pazienti psichiatrici, è riuscito a identificare correttamente nel 94% dei casi coloro che avevano già tentato il suicidio. Le risposte più accurate sono quelle relative all'imaging indotto in risposta ai termini "morte", "senza vita" e "spensieratezza".
Utile ma impossibile. Lo studio è stato effettuato su un campione piccolo e, per ammissione degli stessi ricercatori, andrebbe validato su un numero molto più alto di casi prima di poterne fare uno strumento diagnostico.
La ricerca non ha però mancato di suscitare perplessità. Diversi scienziati si sono dichiarati scettici sulla possibilità di poter utilizzare soluzioni di questo genere nella pratica clinica quotidiana. «Occorrono apparecchiature molto sofisticate e costose, ma anche pazienti estremamente collaborativi», obietta Derek Hill (University College di Londra). «Ogni nostro comportamento ha una base biologica, ma non è detto che l'MRI sia lo strumento giusto per identificarlo», gli fa eco Blake Richards (University of Toronto).
Per rispondere almeno in parte alle obiezioni sulla tecnologia, il team della Carnegie Mellon sta provando a ripetere lo stesso esperimento utilizzando un comune elettroencefalogramma, che può essere effettuato con strumenti più semplici, portatili e meno costosi.