Le persone bilingui si ammalano di Alzheimer, in media, 4 o 5 anni più tardi dalla malattia rispetto ad altri. È un fatto osservato da tempo dagli epidemiologi: ora uno studio italiano, pubblicato sulla rivista Pnas, fa luce sui perché.
A Milano e a Bolzano. I ricercatori dell’Ospedale e dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano hanno studiato un gruppo di pazienti, in totale 85 persone, cui era stato diagnosticato il morbo di Alzheimer da circa tre anni: metà di loro è di lingua madre italiana, residente a Milano, l’altra metà, originaria dell’Alto Adige, parla sia italiano sia tedesco.
A conferma delle osservazioni già fatte diverse volte, il gruppo delle persone bilingui era in media cinque anni più vecchio di quelle dei monolingue. In più, nei test sulla memoria, sia nella capacità di ricordare parole sia di riconoscere volti e luoghi, i bilingue italo-tedeschi hanno ottenuto risultati migliori.
Cervello più danneggiato... I ricercatori hanno esaminato i partecipanti allo studio anche con una particolare tecnica di imaging, la Fdg-Pet, che consente di misurare sia il metabolismo del cervello, quindi la sua attività, sia le connessioni tra diverse strutture e aree. La prima osservazione emersa è che, come già mostrato anche in altri studi, nelle aree tipicamente colpite dalla malattia, i pazienti bilingue hanno un grado minore di attività del metabolismo cerebrale, a indicare che la malattia - forse anche per la maggiore età dei pazienti - procederebbe addirittura più velocemente e sarebbe più avanzata che negli altri.
... ma meglio funzionante. Un risultato apparentemente contraddittorio, ma in realtà in linea con un’ipotesi formulata già all’inizio degli anni Novanta, quella della “riserva cognitiva”. La teoria è che in qualche modo l’educazione e l’istruzione costituiscano un capitale che consente di compensare, o aggirare o fare fronte in modo migliore ai danni che la malattia provoca nel cervello.
L’idea si basa non sul dato che le persone con un più alto grado di istruzione e cultura sembrano ammalarsi più tardi, o presentare all’inizio sintomi meno gravi, ma anche su quello emerso in studi fatti con l’autopsia di anziani malati o no di Alzheimer: non sempre i danni nel cervello corrispondono al grado di decadimento cognitivo che presentavano in vita. Come però il maggiore uso del cervello, l’istruzione o il bilinguismo dovrebbero svolgere questo effetto protettivo, non è per niente chiaro.
La riserva dei bilingue. Oltre alla diminuzione del metabolismo cerebrale nelle aree interessate dalla malattia, lo studio dei ricercatori del San Raffaele, ha fornito un’altra osservazione: le persone che parlano due lingue mostrano un’attività maggiore in alcune aree del cervello, in particolare nelle strutture della corteccia frontale implicate in compiti cognitivi complessi, e un maggior grado di connessione in due importanti network cerebrali che svolgono funzioni di controllo cognitivo ed esecutivo.
Sarebbero questi meccanismi a costituire la “riserva” con cui i bilingue riescono a far fronte meglio ai danni della malattia. Non solo. Come osserva Daniela Perani, coordinatrice della ricerca, “più le due lingue sono utilizzate, maggiori sono gli effetti a livello cerebrale e migliore è la performance. Il punto non è quindi conoscere due lingue, ma usarle costantemente in maniera attiva e durante tutto l’arco della vita”.
Resta da vedere se questo vale per le lingue imparate da bambini, o se è un effetto che dura per tutta la vita. Non c’è una risposta sicura, ma le ricerche sembrano suggerire che qualunque attività che aiuta a tenere in esercizio il cervello, dall’imparare una lingua a leggere un libro, all’andare al cinema o a teatro, sia utile.