Se siamo destinati a invecchiare anziché vivere ad oltranza, è per una svista dell'evoluzione, che ha preferito favorire un meccanismo che promuove il successo evolutivo - anche se questo ha un "costo" in termini di sopravvivenza.
I geni che presiedono a uno dei processi chiave per la salute delle cellule, l'autofagia, nei vermi giovani e prestanti, sono gli stessi che, in età avanzata, presiedono al processo di invecchiamento. Lo sostiene un articolo pubblicato sulla rivista Genes & Development, che potrebbe avere implicazioni importanti nella ricerca contro le malattie neurodegenerative.
Domanda aperta. Charles Darwin ci ha insegnato che, per la selezione naturale (il meccanismo con il quale avviene l'evoluzione), in una popolazione molto diversa dal punto di vista genetico, si ha un progressivo aumento della frequenza degli individui con caratteristiche ottimali per quell'ambiente, in grado di riprodursi con più facilità e di trasmettere i geni alle generazioni successive.
Più un tratto risulta importante nel determinare il successo riproduttivo, più forte dovrebbe essere la selezione di quella caratteristica. In teoria, questo dovrebbe dare origine a individui che non invecchino mai e che - rimanendo sempre giovani - possano continuare a trasmettere i propri geni a ciclo continuo. Ma sappiamo che non funziona così: gli individui di ogni specie invecchiano e muoiono, anche se con modalità e tempi differenti.
Una soluzione. Nel 1953, il biologo statunitense George C. William fornì una possibile risposta al dilemma, proponendo che la selezione naturale si interessi solo ai geni implicati nel successo riproduttivo, e ignori eventuali effetti negativi sulla longevità - a patto che questi effetti negativi sopraggiungano dopo l'inizio dell'età riproduttiva.
In altre parole, se una mutazione genetica favorisce un maggiore successo riproduttivo, al costo di accorciare la vita dell'individuo, allora ben venga. Ci saranno più individui figli a continuarne la discendenza, compensando la sua perdita. Con il tempo, queste mutazioni sarebbero divenute insite nel nostro DNA. Ma se la teoria risulta valida dal punto di vista matematico e "pratico", dal punto di vista genetico non era ancora stata provata.
Le basi genetiche. I ricercatori dell'Institute of Molecular Biology (IMB) di Mainz, Germania, hanno studiato i geni del vermi C. elegans, identificandone una trentina che sembrano promuovere l'invecchiamento in modo specifico negli esemplari già avanti con l'età.
Una serie di questi geni è implicata nella regolazione dell'autofagia, un meccanismo con il quale le cellule rimuovono e riciclano i componenti danneggiati. Questo processo, fondamentale per la salute dell'individuo in giovane età, diventa sempre più lento fino a degradarsi del tutto con la vecchiaia.
Silenziando nei neuroni i geni che guidano l'autofagia, i ricercatori hanno osservato che i vermi vivevano esistenze più lunghe del 50%.
«Si pensa quasi sempre che l'autofagia sia utile anche se funziona appena. Noi invece dimostriamo che quando smette di funzionare ci sono conseguenze molto negative ed è meglio evitarla del tutto» spiega Holger Richly, tra gli autori. Non è chiaro quale meccanismo tenga i neuroni in salute più a lungo, né se lo stesso valga anche nell'uomo. Ulteriori ricerche dovranno chiarire se possano esserci ricadute nella vita reale.