Salute

Cos'è questa storia della covid che prolifererebbe in mercati e mattatoi?

Dal focolaio del mercato di Pechino ai contagi negli impianti di macellazione: la covid sembra prediligere i luoghi freddi, umidi e affollati.

Mentre le autorità sanitarie di Pechino sono impegnate in una maxi indagine epidemiologica attorno al mercato di Xinfadi, dove è emerso il recente focolaio di covid che preoccupa la Cina, si infittisce il mistero sull'origine del virus nella capitale, che fino a una manciata di giorni era vicina a festeggiare i due mesi senza nuovi casi. Perché, ci si chiede, anche questo focolaio è "nato" (o meglio è stato trovato) in un mercato? C'entrano l'igiene o il sovraffollamento? Oppure è alla merce, che bisogna guardare?

Venuto "da fuori". Tracce di coronavirus SARS-CoV-2 trovate su un banco dove si tagliava il salmone hanno fatto circolare voci su una possibile contaminazione del "pesce importato", timori amplificati dalla propaganda cinese che da subito ha fatto leva sul fatto che il nuovo focolaio provenisse da fuori - forse dall'Europa, come sembrerebbero indicare le prime, parziali analisi genetiche dei campioni. Anche questa informazione va letta con molta attenzione, almeno finché non ci saranno i risultati definitivi sul sequenziamento genetico dei campioni: l'idea di un virus arrivato "da fuori", a colpire un Paese ormai libero da contagi interni fa infatti parte di una narrazione cara al regime.

La catena dei contagi. Aver individuato tracce di coronavirus su un bancone del pesce non è sufficiente, per concludere che il salmone sia la fonte dell'infezione. Questa è anzi una teoria molto inverosimile, perché i pesci non possono contrarre la covid nel loro habitat naturale: per quel che sappiamo, il SARS-CoV-2 infetta soltanto i mammiferi, ma non pesci, uccelli e rettili.

La merce fresca potrebbe essere stata contaminata da chi ha lavorato alla sua cattura e al suo trasporto, ma allora il virus dovrebbe essere sopravvissuto al congelamento per poi essere di nuovo liberato una volta scongelato il prodotto. Non è impossibile ma è di certo più facile che sia stato contaminato direttamente al mercato, visto che sono stati trovati frammenti di virus un po' ovunque, nella struttura. L'ipotesi al momento più solida è che qualche visitatore o lavoratore poco sintomatico abbia starnutito nei pressi del bancone o l'abbia toccato con mani contaminate dal virus: se questo fosse vero, il contagio potrebbe benissimo essere avvenuto anche da persona a persona.

Secondo la Commissione Centrale di Controllo del Partito Comunista Cinese, è necessario rivedere con urgenza i bassi standard di igiene dei mercati alimentari del Paese, la maggior parte dei quali è stato costruito 20, 30 anni fa, quando i sistemi di drenaggio e trattamento delle acque reflue erano ancora poco efficienti. I mercati dovranno migliorare il tracciamento dell'origine, del trasporto, della conservazione e della vendita dei prodotti alimentari secondo standard internazionali. © Shutterstock

All'origine del cibo. Aver trovato i contagi al mercato non significa - è bene ricordarlo - che il focolaio abbia avuto origine proprio in quel luogo: gli stessi dubbi sussistono per il mercato di Wuhan.

Un ambiente freddo e umido, molto affollato e con presenza di prodotti animali sembra comunque rappresentare un luogo di proliferazione particolarmente adatto al virus, come conferma un'altra tendenza: quella della diffusione della covid nei mattatoi. Decine di impianti di macellazione di carni animali sono stati costretti a chiudere negli USA per il dilagare di contagi, e 12 dei 25 maggiori focolai registrati nel Paese sarebbero partiti da questi luoghi. Centinaia di lavoratori di questo settore sono risultati positivi alla covid anche in Australia, Irlanda, Germania, Brasile, Spagna, Canada, tanto da far pensare che esistano condizioni specifiche nei mattatoi che possano favorire la presenza del virus.

Fatica e vicinanza. Anche in questo caso non si può parlare di una singola causa, ma di un insieme di condizioni complesso. Come spiega un articolo sulla versione internazionale di Wired, dinamiche di lavorazione della carne in questi impianti obbligano a lunghi e affollati turni di lavoro spalla a spalla, lungo la catena di montaggio, in condizioni di grande fatica fisica in cui si respira affannosamente ed è molto difficile mantenere la mascherina sul viso. Per rispettare le distanze occorrerebbe ridurre la produzione, in modo da limitare il numero di operai presenti contemporaneamente.

All'alto tasso di infezioni potrebbero contribuire le basse temperature e i sistemi di ventilazione aggressiva necessari a impedire che la carne si deteriori e veicoli patogeni - condizioni che, ironia della sorte, permettono al SARS-CoV-2 di resistere più a lungo fuori dal corpo e di propagarsi attraverso i droplets sospesi nell'aria.

Con l'industria della carne messa in ginocchio dallo scoppio di focolai di covid nei mattatoi, negli USA i sostituti vegetali di hamburger e bistecche hanno spopolato nelle spese della quarantena. © Shutterstock

Un risvolto sociale. Ma le condizioni fisiche in cui si lavora in questi impianti non sono l'unico aspetto problematico. Il lavoro nei mattatoi è usurante, pericoloso, faticoso, e in molti Paesi affidato a persone sottopagate e provenienti da contesti socioeconomici già precari, che vivono in appartamenti sovraffollati o che devono affrontare lunghi viaggi sui mezzi pubblici per arrivare in azienda. Quasi sempre manca un accesso puntuale ai sistemi sanitari e si continua ad andare al lavoro anche se non si sta troppo bene, per evitare di perdere il posto. Spesso, mancano i controlli regolari della temperatura all'ingresso, per non parlare dei test sierologici. Tutto questi fattori potrebbero facilitare la circolazione del virus nei sistemi di base della produzione alimentare.

Una questione di vecchia data. Anche prima della pandemia, il problema della sicurezza sul lavoro all'interno dei mattatoi era pressante: negli ultimi 20 anni, la crescita della domanda di carne è andata di pari passo con un allentamento delle misure a tutela della salute dei lavoratori di questi impianti.

In molti casi, anche in pieno lockdown queste fabbriche hanno continuato a lavorare a pieno regime, per i timori di esaurimento delle scorte di cibo: lavoratori già molto esposti sono pertanto stati costretti a tornare a produrre.

21 giugno 2020 Elisabetta Intini
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